Il giorno dopo le elezioni si passa per forza alla pars construens e per un Paese che resta il secondo manifatturiero d’Europa guardare alla propria industria è un dovere ineludibile. Ecco allora alcuni consigli (non richiesti) da girare a chi l’Italia dovrà comunque governarla, a prescindere che in campagna elettorale abbia promesso continuità o al contrario abbia urlato il contrario.
1. Ilva
Tutti avremmo sperato che la questione si risolvesse ben prima delle elezioni, ma le contrapposizioni che si sono create tra enti locali e governo centrale non lo hanno permesso. ll rischio che incombe su Taranto è che i nuovi azionisti della ArcelorMittal si stufino e si ritirino. In fondo se la fabbrica pugliese chiudesse la ristrutturazione dell’industria siderurgica europea — e i francesi — ne guadagnerebbero comunque. E una semplice verità che chiunque si stabilirà a Palazzo Chigi o al Mise dovrà tener presente.
2. Industria 4.0
Le cose fin qui sono andate benone. Grazie agli incentivi il parco-macchine delle imprese è stato rinnovato e si sono fatti passi in avanti nell’acquisto di sistemi di connessione. Ma era una condizione necessaria (e insufficiente) per non evitare di restare schiacciati dall’offensiva tedesca che possiede le chiavi del 4.o. Molto resta da fare: si comincia con raccordare università e imprese (i competence center), ma c’è anche da ragionare sul ruolo che i grandi capo-filiera italiani come Enel, Finmeccanica, Fincantieri, Eni possono svolgere. Capitolo da aprire e da maneggiare con cura.
3. Piccoli
Convenzionalmente si sostiene che la polarizzazione delle imprese si suddivida così: un 20% di lepri, altrettante tartarughe ormai in ritardo cronico e un 6o%di attività in mezzo al guado. In questa condizione c’è il cuore delle Pmi italiane e manca un monitoraggio vero della loro situazione. Si salva solo chi entra in filiere di fornitura? Ci può essere una politica industriale per loro che peraltro non sia di pura conservazione? La figura del garante delle Pmi, che dopo qualche esperimento è stata depennata, potrebbe essere utile. Ma in questa chiave.
4. Export
Anche in questo caso le cose van bene e la tenuta del commercio internazionale dovrebbe aiutarci anche lungo tutto il 2018. Dobbiamo però aumentare il numero delle imprese che vendono all’estero, come ricorda sempre il ministro uscente Carlo Calenda. Le potenzialità ci sono se, secondo il Centro Studi di Confindustria, i Paesi più promettenti sono gli immancabili Usa, la Cina e la Polonia. Un mix stimolante.
5. Mismatch
Nonostante il numero-monstre di disoccupati non riusciamo a raccordare al meglio offerta e domanda di lavoro. E di questo comincia a soffrire la parte più dinamica delle imprese, quelle che vorrebbero allargare la pianta organica e crescere, ma non trovano le persone che cercano. È una contraddizione che va quantomeno mitigata, magari sfornando in tempi brevi un piano straordinario per gli Its.
6. Settori
È sempre complicato elaborare gerarchie del business che sappiano selezionare con perizia le chance dei diversi settori. Ma ce ne sono alcuni che per un motivo o per l’altro sono arrivati a un loro bivio ed è tempo di scelte. Ad esempio il settore delle macchine utensili e dei robot made in Italy. Ha colto alla grande l’occasione del 4.o ma potrebbe fare molto di più se agisse come sistema. E la logistica? Vista la vittoria del trasporto su gomma e la estrema frammentazione dell’industria dei Tir non si può avviare una iniziativa che riorganizzi il settore e che favorisca la nascita di player robusti? È una domanda tutt’altro che insensata.
7. Turismo
Il 2017 è stato un anno di extra-proventi, se fossimo stati delle formiche invece che delle cicale li avremmo messi a profitto con un piano di ammodernamento delle strutture. I nostri alberghi vanno rinnovati, le nostre spiagge vanno salvaguardate, basterebbe un provvedimento ad hoc per aiutare gli imprenditori più capaci e vogliosi di investire e separarli da chi interpreta il turismo come pura rendita di posizione.
8. Multinazionali
Il dibattito che si è aperto sul caso Embraco è stato ampio e ha investito le scelte di Bruxelles e la concorrenza tra Paesi Ue sul costo del lavoro. È facile pensare però che noi nei prossimi anni avremo tutte le tendenze assieme: più shopping straniero, più tentativi di attrarre investimenti in Italia, qualche delocalizzazione per risparmiare sul costo del lavoro. Tra questi tre punti si può tentare di far passare una linea? Ovvero trovare un indirizzo generale che non dipenda dalla vertenza del momento, ma che abbia un qualche respiro?
9. Cina
La copertina dell’Economist di questa settimana ci parla delle illusioni dell’Occidente nei confronti di Pechino. La sterzata politica di Xi Jinping preoccupa e inquieta anche la strategia di un capitalismo di Stato che all’estero si muove come un predatore (caso Geely). Questo cambio di umore tocca anche noi, non sappiamo cosa accadrebbe se i cinesi dovessero mettere nel mirino qualche azienda italiana che consideriamo strategica. E il piano China 2025 va esattamente in questa direzione.
10. La politica
Si dà per scontato che da oggi avremo una politica più debole se non altro perla frammentazione dei consensi e molti potranno pensare che non avrà la forza di affrontare i temi che abbiamo esposto finora e le domande che abbiamo avanzato. Speriamo che non sia così perché, varrà la pena ricordarlo, l’economia reale non sta mai ferma e chi non è in grado di scegliere cosa fare ha già un po’ perso.5