Se producete Prosecco, concentratevi sulla Gran Bretagna, il Giappone e la Russia. Se nelle vostre cantine invecchia l’Amarone, allora il mercato giusto è quello cinese. Gli Stati Uniti hanno una spiccata preferenza per il rosé e il Pinot grigio. Mentre il pubblico tedesco sembra il più adatto per le bottiglie di Primitivo. Per tutti i produttori italiano di vino, in ogni caso, i prossimi cinque anni avranno il vento in poppa.Al Vinitaly che si apre oggi a Verona, l’Italia non si presenta solo con l’ottimo curriculum del 2017 – 13 miliardi di produzione, quasi 6 di export e una crescita all’estero del 6,2% – ma anche con buone prospettive per il futuro, stando all’indagine condotta da Nomisma Wine Monitor e Vinitaly.Per le 4.380 aziende – 130 in più rispetto all’anno scorso – che fino a mercoledì presenteranno le loro novità negli stand della Fiera, però, non è ancora il momento di sedersi sugli allori. Perché per quanto in crescita, la fetta dei consumatori internazionali nelle mani dei produttori italiani è ancora bassa e la concorrenza di alcuni produttori stranieri si è fatta agguerrita.
Oggi l’Italia risulta il principale fornitore di vino di 16 Paesi, mentre ad esempio la Francia è il primo esportatore in 29, Usa inclusi. E propri agli Stati Uniti è dedicato il focus inaugurale di oggi dellafiera. Un Paese dall’alto potenziale: fra i più ricchi al mondo dal punto di vista del Pil procapite (59.500 dollari che diventeranno 70.000 mila nel 2020), con i consumi di vino cresciuti negli ultimi cinque anni a un tasso medio dell’1,4%. Eppure qui dobbiamo affrontare non solo la concorrenza francese, ma anche i produttori locali, che rappresentano oltre i tre quarti dei consumi e aumentano a tassi superiori a quelli dei vini di importazione. Il mercato statunitense, che per l’Italia vale oltre 1,6 miliardi di euro all’anno, per il 64% si concentra in cinque stati soltanto: Florida, California, Texas, New York e Delaware. Ecco perché quest’anno Vinitaly ha lavorato per portare in fiera nuovi importatori di Colorado, Kansas, Missouri e Illinois. Anche dal Canada, dove il nostro export vinicolo cresce del 9% anche grazie all’accordo di libero scambio Ceta, quest’anno a Verona sono presenti tra i buyer nuovi monopoli: Saq (dal Quebec), Anbl (dal New Brunswick) e Nslc (dalla Nuova Scozia).
La Cina è un altro mercato strategico e con 2,5 miliardi di euro di importazionigià oggi rappresenta il quarto più importante Paese al mondo per chi esporta vino. Ma l’aumento della ricchezza media della popolazione, così come l’imponente processo di urbanizzazione sono destinati a favorire un ulteriore aumento dei consumi di vino, che nel prossimo quinquennio dovrebbero crescere fra il 6% e il 9% l’anno. Anche qui l’Italia ha molti margini di spazio ma deve confrontarsi con la maggior presenza di vini francesi e con la concorrenza dei produttori dell’emisfero australe, facilitati dagli accordi di libero scambio. La crescita dell’export verso la Cina del Cile, per esempio, è il frutto delle intese firmate con Pechino, cui si aggiungono quelle siglate con il Giappone, gli Usa, il Canada e la Ue. In Cina il vino cileno entra a dazio zero, a fronte di un 14% pagato dall’Italia, e anche questo spiega perché nel corso di cinque anni la sua quota di mercato è passata dal 9% al 12%. Lo stesso vale per l’Australia, che dal 2015 gode di un trattamento preferenziale a Pechino e che in cinque anni ha accresciuto la propria quota di mercato dal 14 al 26%.
Oggi il vino italiano cresce molto nell’Est Europa: +144% negli ultimi cinque anni in Lettonia, +97% in Polonia, +55% in Ucraina. In Germania le aziende italiane sono ancora leader in termini di export con una fetta di mercato del 36%, anche se l’invecchiamento della popolazione porterà a una stagnazione dei consumi. Mentre in Gran Bretagna, altro importante mercato europeo per i vini italiani, le vendite stanno soffrendo la svalutazione della sterlina e su tutto pesa l’incognita della Brexit. Il principale ostacolo sulla strada del vino made in Italy? La frammentazione e la ridotta dimensione delle nostre imprese, che fra coltivatori di uva e produttori di vino ammontano a oltre 80mila. Secondo l’ultima indagine di Mediobanca, la più grande società vinicola italiana non cooperativa (Antinori), fattura 221 milioni di euro ed esporta il 65% della produzione. La californiana E & J Gallo Winery, tanto per avere un termine di paragone, nel 2016 ha fatturato quasi 4,5 miliardi di euro. Mentre la Viña Concha y Toro, prima fra le cantine cilene, fattura oltre 900 milioni di euro in un Paese dove i produttori vinicoli esportano oltre il 90% della produzione.
Per aumentare la dimensione dei nostri produttori, però, puntare sulla Borsa o sul private equity non sembra la via giusta: «Diventa difficile mettere a utile un investimento nel vino, quando il fatturato di una cantina è molto inferiore al valore della vigna, che rappresenta un’immobilizzazione di capitali enorme», spiega David Pambianco, che nella rivista Pambianco Wine & Food in distribuzione da oggi al Vinitaly pubblica le classifiche dei marchi italiani del vino. Resta, piuttosto, la via delle acquisizioni, «che in Italia negli ultimi anni hanno registrato un certo dinamismo e che mi aspetto proseguiranno anche nei prossimi mesi».