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La fabbrica sta cambiando. Sia come organizzazione del lavoro che come competenze e relazioni impiegate. È ora fondamentale gestire gradi di flessibilità e filiere policentriche che creano un salto rispetto alla fabbrica classica, monocentrica e programmata al dettaglio cui eravamo abituati. Ma la manifattura intelligente è solo uno dei punti focali attorno a cui si concentra la transizione verso il paradigma digitale. Al contrario, l’Industry 4.0 si propone come l’asse portante di un nuovo modo di generare valore in tutte le attività di produzione e di consumo.
La rivoluzione digitale è diventata un processo pervasivo e dirompente, che va ben oltre i processi produttivi delle imprese, coinvolgendo la vita privata delle persone, l’esperienza delle relazioni sociali, la cittadinanza attiva nella politica e nelle istituzioni. Essa non cambia soltanto il mondo degli oggetti e dei segni che popolano il mondo in cui viviamo ma, coinvolgendo in un numero crescente di funzioni, sposta la nostra esperienza del mondo e di noi stessi dallo spazio materiale a quello ibrido dell’im/materiale, dove immateriale e materiale si compenetrano.
Viviamo ormai in una infosfera in cui i pensieri della mente e le sensazioni del corpo sono alimentate da immagini, informazioni, suggestioni mediate dalle tecnologie digitali, diventando in questa forma parte integrante e decisiva della nostra vita reale. Non un’aggiunta, ma la base operativa, il rapporto organico con il mondo, sia virtuale che reale. Un effetto rilevante dell’affermazione della infosfera come interfaccia universale tra noi e il mondo è – come afferma Floridi – lo sviluppo del “sé sociale”, ossia dell’identità che ciascuno rielabora sulla base di esperienze che utilizzano la mediazione digitale, ibridando mondo fisico e mondo virtuale, con la progressiva dilatazione di quest’ultimo anche sul terreno delle esperienze emotive e delle relazioni empatiche con altri. La comunicazione che attraversa la rete digitale crea circuiti reputazionali, identitari, comunitari che influiscono sul senso che le persone, e dunque le organizzazioni, danno a ciò che fanno. Nessuna delle nostre abitudini e visioni delle cose resterà immune da questo nuovo modo di pensare e di agire, indotto dalla digitalizzazione.
Dal punto di vista economico, la sfera cognitiva si alimenta non solo di ciò che abbiamo ereditato dal passato, ma dalla continua produzione endogena di nuove conoscenze per effetto della ricombinazione del sapere esterno, a cui si ha accesso a basso costo, e del sapere messo in campo dagli investimenti pubblici e privati (laddove le conoscenze superino la barriera proprietaria). È l’apertura di questo sistema che, dando accesso ad una base sempre più estesa di conoscenze a basso costo, alimenta la crescita e la trasformazione generale dell’eco-sistema.
Questa trasformazione del modo di vivere e di lavorare si concretizza nel crescente uso di conoscenze che sono non solo memorizzate o comunicate, ma anche “agite” – e spesso “interagite” – utilizzando la mediazione digitale, che avvolge ed entra in dialettica con la nostra realtà mentale e corporea. Ci si può così incontrare in video-conferenza, fare sapere al mondo come la pensiamo in 120 caratteri, inviare selfie e video della propria esperienza a persone che la possono condividere, idealmente ed emotivamente, senza spostarsi, ma si può anche lavorare – grazie agli smartphone, in modalità smartworking, in movimento e senza legami ad un luogo fisico – e svolgere operazioni complesse e molto delicate, come un intervento chirurgico o la riparazione di una macchina utensile in panne, grazie alla connessione in rete e alla sensoristica degli algoritmi intelligenti. Dal punto di vista delle iniziative soggettive, il digitale ha dunque una funzione abilitante, perché attiva a loro vantaggio capacità di pensiero e di azione in precedenza deboli o non praticabili. Per chi padroneggia i linguaggi e le piattaforme del nuovo paradigma digitale, tutto sembra diventare più semplice, più veloce, più efficiente. I singoli consumatori dotati di smartphone e abituati a vivere connessi a tutti i temi di loro interesse, oggi sono spesso persino più informati e attivi degli imprenditori industriali, artigiani o commercianti con cui entrano in contatto e a cui chiedono prestazioni personalizzate. Molte cose che hanno finora occupato il nostro tempo e la nostra attenzione possono essere gestite in rete, o affidate ad algoritmi digitali, con costi sempre ridotti e qualche volta nulli.
In realtà, per operare in modo efficace in questo tipo di mondo servono competenze e abilità nuove, la cui mancanza può risultare paralizzante per chi proviene da mondi ed esperienze pre-digitali. Non si tratta tanto di avere una sorta di “alfabetizzazione informatica”, che consenta di usare i nuovi dispositivi e il coding digitale senza difficoltà. Serve molto di più. Serve la capacità di usare in maniera fisiologica il digitale, senza rimanerne schiavi o cadere vittima delle distorsioni che questo può provocare – se utilizzato male – a livello cognitivo. Serve la capacità di operare trasversalmente, in settori e campi cognitivi differenti, e di apprendere rapidamente il nuovo, adeguando le proprie abilità e i propri comportamenti.
Come dice Federico Butera, “il paradigma dominante del lavoro nella quarta rivoluzione industriale potrà essere quello dei mestieri e professioni dei servizi a banda larga (broadband service professions)”, contenenti una altissima varietà di contenuto, livello, background formativo. Per dirla con Arthur, il digitale fornisce infatti una “intelligenza esterna”, che ordina nostro contesto di vita e di lavoro sulla base di propri criteri. Che sono nella maggior parte dei casi utili, ma non sempre trasparenti e dotati di senso: gli uomini si abituano così a coesistere, nel mondo reale, con un sistema virtuale dotato di un proprio ordine e sottratto all’iniziativa dei singoli attori che lo utilizzano. L’ambiente si organizza, evolvendo nelle forme più adatte a sfruttare questa coesistenza di digitale e umano, trasformandosi in una infosfera che fa da nuova base – artificiale ma coerente con le nostre aspettative – alle esperienze di vita e di lavoro che intrecciano virtuale e reale. Si tratta di un ordine utile, costruito per fini pratici, ma di un ordine che nel procedere del tempo acquista una propria autonomia, potendo dare luogo anche a situazioni e processi controproducenti, dal punto di vista dei soggetti che lo utilizzano. Emerge, in questo, quello che Granelli – come si è detto – ha chiamato il “lato oscuro” del digitale, che tende a ridurre la qualità e la densità dei rapporti sociali consapevoli aderendo alla logica della quantità e della superficialità delle relazioni virtuali coltivate in rete.
Dentro la rivoluzione digitale. Per una nuova cultura dell’impresa e del management
di Francesco Rullani ed Enzo Rullani
G. Giappichelli Editore
Pagine 301, euro 28,00