È finita prima ancora che finisca: lo si nota dai piccoli dettagli e dalle grandi questioni che la maggioranza gialloverde è al capolinea. E anche il timing, finora posizionato dopo le Europee, potrebbe essere anticipato. D’altronde, cosa può tenere insieme un’alleanza se alla presentazione della carta per il reddito di cittadinanza i grillini non invitano l’alleato? Quanto a lungo possono coesistere se il ministro per le Infrastrutture Toninelli trasmette il dossier sulla Tav ai francesi e non ai suoi colleghi italiani? E soprattutto dov’è la «solidarietà di governo», se i Cinque Stelle continuano a non sciogliere la riserva sul voto del Senato che potrebbe mandare a processo il ministro dell’Interno per quello che Palazzo Chigi definisce un «atto di governo»?
Il punto è che l’asse tra Salvini e Di Maio si è incrinato. È una rottura personale oltre che politica, su cui ha inciso (anche) il caso Diciotti. Nel cambio di atteggiamento del leader leghista, il capo M5S ha visto l’intenzione dell’altro vicepremier di «cercare l’incidente» e «spaccare il Movimento». Sul fronte opposto, il modo in cui Di Maio tergiversa sulla richiesta del Tribunale dei ministri, irrigidisce la sua posizione sulla Tav e non offre spiragli sulla crisi venezuelana, ha convinto Salvini che l’alleato sia stato «commissariato» dall’ala movimentista del grillismo. Così si è passati agli insulti, anticamera del divorzio.
Che sia finita prima ancora che finisca lo riconoscono fonti accreditate dei Cinque Stelle e lo riferiscono esponenti leghisti del governo, che raccontano come il leader del Carroccio si sia «stufato» e stia «facendo freddamente i calcoli»: l’hanno capito — dicono — «da come ci ha chiesto conto di alcuni provvedimenti in cantiere», quasi stia cercando il punto di rottura. Perché c’è la Tav, ma non solo. È credibile quindi Salvini quando dice che «non c’è alcuna trattativa» con M5S che abbia come «merce di scambio» il voto sul suo processo: se i grillini lo autorizzassero, il governo non cadrebbe sul caso Diciotti. Ma avrebbe i secondi contati.
Il passaggio per il ministro dell’Interno è delicato: per questo motivo ha imposto la consegna del silenzio ai dirigenti leghisti. Solo che i dirigenti leghisti tra loro parlano. Così la scorsa settimana a Bergamo, durante la festa della Lega lombarda, il sottosegretario alla presidenza Giorgetti ha detto che «se non dovesse passare l’Autonomia regionale come la chiediamo noi, e come peraltro è scritto nel contratto, io mi ritirerei dal governo. Restarci non avrebbe senso». È finita l’epoca delle mediazioni, anche perché la recessione avanza e la responsabilità della crisi finirebbe per ricadere pure sulla Lega. Berlusconi sta già tentando di insinuare il tarlo nell’elettorato: «Salvini ha delegato la politica economica a Di Maio, la tempesta si sta avvicinando e persino Savona ha deciso di defilarsi».
Il passaggio alla Consob del ministro per gli Affari europei manifesta la difficoltà di una coalizione incapace di trovare per tempo soluzioni adeguate, costretta a usare una pedina di governo per superare in extremis lo stallo, e già ai ferri corti per un’altra casella di potere: il vertice dell’Inps. In questo contesto la spaccatura sul Venezuela passa quasi in secondo piano, gestita dagli alleati-avversari come un affare domestico, come un altro tema di battaglia elettorale, con la noncuranza di chi non sa quanto sia storicamente pericoloso maramaldeggiare nel «cortile» americano. E proprio sul Venezuela si rivela la debolezza di Conte, che nonostante il monito pubblico del capo dello Stato e la protesta riservata della diplomazia statunitense, non è stato finora in grado di sbloccare la situazione.
La verità è che il «mediatore» si trova imbrigliato tra Di Maio e Salvini. I due vicepremier non possono sbagliare: il primo si gioca solo il governo, il secondo rischia anche personalmente. Entrambi mirano a scaricare sull’altro la responsabilità della rottura. Ecco spiegato il motivo per cui non c’è certezza sulla deadline, che — secondo rappresentanti di governo leghisti — «potrebbe essere anticipata prima delle Europee». In quel caso non ci sarebbero i numeri per altri esecutivi. L’opzione M5S-Pd è impraticabile, «i dem non sono pronti», spiega un esponente grillino. E un gabinetto di centro-destra con i transfughi dei Cinque Stelle non lo vorrebbe Salvini: intestarsi una simile operazione per gestire poi la prossima Finanziaria, vorrebbe dire ripercorrere la strada di Renzi. Che vinse alle Europee e poi perse tutto.