I piccoli, i grandi. Le aziende familiari e le multinazionali. La meccatronica e la cioccolata, la ricerca per un’energia pulita e l’arte dei gioielli o di un buon caffè, i trattori e le auto da competizione e i maestri della seta, della grafica, del design. Sarà come scattare un’istantanea della manifattura italiana, domenica 25 novembre: perché è davvero trasversale il «campione» delle 50 imprese (in sette regioni) che apriranno al pubblico le porte delle loro fabbriche, dei laboratori in cui progettano la prossima innovazione, degli open space nei quali i loro ingegneri, fisici, informatici lavorano alla nostra sicurezza nell’era digitale o alle soluzioni per rendere lo sviluppo sempre più sostenibile. Ma c’è una cosa, su tutte, che unisce ciascuna di queste aziende. Non importa la dimensione, non importa il settore. Se hanno deciso di partecipare all’Open Factory Sunday, la domenica delle fabbriche aperte organizzata da L’Economia del Corriere della Sera e da ItalyPost, è per comunicare, farsi conoscere, aprire un dialogo con i territori in cui operano. Non c’entra nulla la pubblicità. I colossi come Eni, Snam, Nestlé, Lavazza, Cnh hanno i mezzi per fare ben altro.
I «piccoli» possono avere nomi sconosciuti al largo pubblico, ma hanno marchi sinonimo di assoluta eccellenza: e poiché a riconoscerlo sono i mercati mondiali, che differenza può fare un open dello stabilimento? La risposta è: moltissima. Ha a che vedere — anche — con una cosa che suonava retorica, passata di moda (per usare un eufemismo) da una vita, e di cui pareva ci si dovesse semmai vergognare. Parlare di «orgoglio della fabbrica»? Andiamo. Invece, sorpresa: dai primi test di Open Factory, con gli eventi-pilota organizzati negli anni scorsi a Nord-Est, è uscito esattamente questo. L’orgoglio. Degli imprenditori e degli stessi dipendenti. Fieri — e infatti sono loro, a guidare i visitatori tra i vari reparti — di ciò che fanno e di come lo fanno, di prodotti per i quali il mondo ci considera «i più bravi», di fabbriche che solo nelle ideologiche nostalgie del Novecento sono ancora posti sporchi di grasso, rumorosi, ammorbati dalla puzza di saldatura e di solventi.
Non tutte le aziende sono così? Vero. Queste sono le eccezioni, non la regola? Vero a metà. Lo dimostra l’elenco di chi, dal Nord-Est al Nord-Ovest passando per il Centro del Paese, partecipa a Open Factory 2018. È ancora soltanto un’avanguardia degli imprenditori che vogliono farsi conoscere direttamente — dalla gente, sul territorio — perché si sono stancati di essere dipinti in blocco come inquinatori attenti solo al profitto. Ma provano a far sentire la loro voce così: sul campo. Meritano almeno una chance di ascolto.
*Corriere della Sera, 17 novembre 2018