La giornata che doveva gettare le basi per il salvataggio dell’economia europea non è iniziata al meglio. Solo lunedì sera, indirettamente, il governo ha scoperto che la Commissione europea si preparava a una decisione che riguarda in pieno l’Italia: Ursula von der Leyen, la presidente, voleva far approvare delle “linee guida” generali per l’uscita dei vari Paesi dal lockdown imposto per fermare Covid-19.
Nessuno aveva avvertito le autorità del Paese più colpito d’Europa, con 135 mila contagiati e 17 mila morti. Le istruzioni di Bruxelles non sarebbero state vincolanti ma potevano interferire con le exit strategy dell’Italia o di altri Paesi. Ieri pomeriggio Giuseppe Conte ha telefonato a von der Leyen chiedendole di soprassedere e nel giro di poche ore i governi di Parigi e di Madrid si sono schierati con il premier italiano. Alla fine la presidente tedesca della Commissione ha accettato di rinviare, ma ormai si era rivista la stessa linea di faglia che poche ore dopo avrebbe fratturato l’Eurogruppo.
Del resto la stessa Commissione al proprio interno vive le stesse divisioni andate in scena ieri fra i ministri delle Finanze: i commissari di Italia, Francia, Spagna e Portogallo – a partire da Paolo Gentiloni – a favore di un “Recovery Plan”, un piano europeo per la ripresa finanziato da risorse comuni; quelli di Austria, Paesi baltici e la stessa von der Leyen molto più freddi. Alla fine l’Eurogruppo ieri è iniziato (in ritardo) dopo che nella bozza di conclusioni era comparsa l’opzione preferita dalla presidente tedesca della Commissione: il “Recovery Plan” era legato al bilancio Ue, ossia ai fondi europei che avrebbero potuto aumentare marginalmente nei prossimi sette anni.
Se questa è l’idea, avrebbe ridotto a ben poco l’intero pacchetto europeo di risposta dalla recessione da Covid-19. Gli altri elementi infatti sono fuori proporzione rispetto a un crollo del prodotto lordo nel 2020 che UniCredit prevede del 13% per l’area euro (circa 1.600 miliardi di euro di distruzione di reddito). Sure, il piano di sostegno del lavoro che von der Leyen definisce “solidarietà in azione”, per l’Italia per esempio equivale a un prestito capace di coprire poco più di quattro settimane di cassa integrazione: in base all’articolo 9 del regolamento di Sure il governo può infatti ritirare al massimo venti dei cento miliardi del fondo, ma deve offrire garanzie per cinque miliardi.
Quanto al progetto di nuove garanzie per 200 miliardi della Banca europea degli investimenti – Berlino preferirebbe di meno – copre a stento il 4% del credito alle imprese europee. Resta poi il pezzo del puzzle sul quale Germania e Olanda puntano di più: prestiti del fondo salvataggi Mes per un ammontare fino al 2% del prodotto (Pil) del Paese in crisi, con poche condizioni almeno all’inizio. Nei negoziati dell’Eurogruppo, anche questa è parsa subito un’arma spuntata e non solo perché nessun grande Paese dell’euro quest’anno avrà un deficit pubblico di meno dell’11% del Pil (sempre secondo UniCredit). Soprattutto restano dei dubbi, emersi in queste settimane, che quei nuovi programmi del Mes disegnati per Covid-19 possano legalmente aprire la strada alle Outright Monetary Transactions, gli interventi in teoria senza limiti della Banca centrale europea voluti da Mario Draghi nel 2012. Un governo che accetta il primo prestito leggero del Mes potrebbe dunque poi doverne richiederne altri e trovarsi soggetto a una vigilanza sempre più stretta.
Proprio l’insufficienza del pacchetto rende importante, per Italia e Francia, che Germania e Olanda accettino il principio di un “Recovery Plan” con risorse comuni. Ma anche ieri Berlino ha puntato a concedere impegni vaghi e a ottenere un rinvio (come quando nel 2012 la Germania accettò un’assicurazione sui depositi bancari, che da allora resta sulla carta). Ancora più duro è stato Wopke Hoekstra, il ministro dell’Aia, ieri da subito sulle posizioni opposte rispetto Roberto Gualtieri. Proprio Italia e Olanda sono le estreme in un clima di scontro condizionato dalle pressioni interne in entrambi i Paesi.
Se non altro, la Bce inizia a smantellare l’errore del 2005, che affidò l’accesso alla liquidità dei Paesi dell’euro ai giudizi delle agenzie di rating. Per gli interventi in questa crisi, da ieri, quel vincolo non vale più.