Oggi tutti si affollano e si accalcano intorno a Venezia. Sommersa dalle acque, sulle quali è sorta. E che domina. Città bellissima — anzi, di più — e vulnerabile. Perché la storia, l’arte, la cultura che racconta, a tutti coloro che la vedono, anche per la prima volta, sono un tesoro senza paragoni. Ma anche un rischio. La città, nel corso del tempo, è cambiata. Sempre bellissima. Sempre unica. Ma è diventata un museo, nel migliore dei casi. E si sta trasformando in un luna park, un centro commerciale diffuso. Abitata da turisti di passaggio. Costellata di Airbnb. Di stanze e appartamenti destinati ai turisti.
Insomma, Venezia potrebbe apparire (e ridursi in) un luogo di passaggio, una città in affitto. Tuttavia, sarebbe improprio, anzi, sbagliato e ingiusto, considerarla “vuota”. Abbandonata dai “veneziani”. Perché i residenti sono ancora decine di migliaia. Circa 90 mila tra “sestieri” e isole. Pur se moltissimi se ne sono andati… o meglio, si sono trasferiti. Spesso, nei centri vicini. In primo luogo, a Mestre. Difficile non evocare una famosa canzone di Charles Aznavour: Com’è triste Venezia. Si riferiva a un amore finito. Un legame personale spezzato. Tuttavia, questa citazione va considerata in modo corretto. Come segno di un legame, non solo occasionale. Perché Venezia è anche questo. Ma non solo. Per migliaia e migliaia di persone. Oltre che per milioni di turisti. È un luogo della memoria. Che richiama incontri e storie “personali”. In-dimenticabili.
Proprio per il con-testo, lo scenario “con-diviso” nel quale si sono svolti. Io, personalmente, abito “intorno a Vicenza”. E, quindi, “intorno a Venezia”. Dove ho lavorato per alcuni anni. Anche se “lavorare” è una parola grossa, quando si tratta di un incarico di direzione scientifica. Tanto più, a Venezia… Presso la Fondazione Nordest. Nei primi anni 2000. Allora aveva sede a Palazzo Labia. Un Palazzo barocco, a Cannaregio, lungo il Canal Grande. Dove si ammira un ciclo di affreschi straordinari. Opera di Giambattista Tiepolo. Così, mi sono “abituato” alla “bellezza”. E se ti abitui alla “grande bellezza” di questi luoghi (il richiamo al film di Sorrentino non è casuale…) fatichi a rinunciarvi… In particolare, quando, come allora, si ha l’occasione di frequentare la città. Quotidianamente. E di scoprire, meglio: sperimentare, le ragioni che la rendono “unica”.
Ma anche “vulnerabile”. A rischio. Le stesse ragioni, peraltro, che ne fanno un luogo ri-conosciuto nel mondo. Un centro di attrazione. Senza ignorare le conseguenze, non sempre positive, di tanta “centralità”. Non intendo ripetere ciò che altri, più autorevoli di me, hanno già detto e scritto. Fra gli altri, Roberto Ferrucci, su queste stesse pagine. Ha raccontato “il dolore, la rabbia, lo sconcerto, la paura… che solo chi vive a Venezia, solo chi l’ha scelta per la sua unicità o ci è nato, può davvero sentire”. Tanto più dopo aver assistito all’irrompere, nei canali di questa città meravigliosa, di grandi navi, cariche di turisti. Che guardano, passano e fuggono. Personalmente, ritengo che “il” problema, quantomeno: “un” problema, rilevante, sia costituito proprio da questa tras-figurazione della città. Che rischia di perdere il suo requisito principale. La sua identità. Essere una città. Cioè: un luogo di relazioni, di comunità, di lavoro.
Perché molte sue attività sono trasferite all’esterno. Sulla terraferma. A Mestre e a Marghera. Così Venezia rischia di diventare altro. Di tras-figurarsi in una “figura”. In una ir-realtà quasi virtuale. Un repertorio d’arte e di storia.
Un itinerario “meraviglioso”, in mezzo a una rete di calli e di canali. Sulla Laguna. Sopra — oggi: sotto — il mare.
Una città in equilibrio — instabile — sull’acqua. Peraltro, proprio questa condizione — ai limiti — la rende unica.
Eccezionale. E oggi molti turisti la affollano proprio per vedere come, nell’emergenza, questo precario “equilibrio” si rovesci. L’acqua, il mare, che invadono la città. Allagano piazza San Marco. La Basilica. La Laguna che “dilaga”. Così, dovunque, i turisti camminano sulle acque… Talora, le attraversano. E le foto, i selfie sul telefonino, si sprecano. Per questo è giusto, necessario, il richiamo dei veneziani “responsabili”. Come Massimo Cacciari e Gianfranco Bettin. Voci autorevoli e inascoltate, che, da tempo e in tempi non sospetti, hanno recriminato e polemizzato contro lo spreco enorme di risorse per il Mose. Un investimento enorme.
Avrebbe potuto essere destinato a progetti di scavo dei canali della Laguna. Oltre che alla tutela di piazza San Marco e della Basilica. Ma anche per rendere la città vivibile, anzitutto e soprattutto ai residenti. Ai veneziani. Per questo, oggi, il rischio è di considerare l’emergenza come un evento “normale”. Coerente con l’immagine “eccezionale” della Città. Riproposta e rilanciata ovunque dai media. E dai turisti, dagli stessi residenti, attraverso i social. Una città ir-reale.
Tuttavia, il futuro di Venezia dipende sicuramente dalla tutela del suo ambiente fragile e bellissimo. E della sua identità “irripetibile”. Ma anche dalla sua “normalizzazione”. Cioè: dal rimanere, o meglio: tornare a essere, una “città”.
Un luogo di residenza, relazione, comunicazione inter-personale. Un luogo di incontro e di memoria personale. Non solo per chi ci è venuto — e passato — una volta, senza più tornare. Per chi la vede e ri-vede di lontano, sugli schermi, in foto, sugli smartphone. Perché in questo caso non ci sarebbe speranza. Venezia sarebbe destinata all’irrealtà.
Proiettata nella memoria, al più: nella storia. Non lo merita. Non lo meritano i veneziani. Non lo meritiamo neppure noi, che abitiamo e ci aggiriamo alla sua periferia. E la guardiamo con rispetto e ammirazione.
Perché è una Capitale. Non solo per il Veneto, ma anche per l’Italia. E oltre.