Sappiamo tutto o quasi sullo tsunami demografico che si sta già abbattendo sull’Italia e che moltiplicherà la sua forza d’urto nei prossimi decenni. Sappiamo poco invece sugli effetti che lo spopolamento e l’invecchiamento producono e produrranno sulla ricchezza nazionale, svuotando l’esercito degli italiani in età di lavoro e gonfiando quello degli over 65. A poco servirà l’immigrazione per compensare questo effetto recessivo. Dovremmo cercare anche altre vie, a cominciare dall’allungamento della vita lavorativa, da una maggior partecipazione femminile alla forza di lavoro, da un più elevato grado di istruzione. Nessuna di queste politiche, tuttavia, seppur certamente in grado di ridimensionare l’effetto recessivo, potrebbe da sola invertire la marcia e reinnescare la crescita del Pil. L’unica leva capace di farlo sarebbe un deciso aumento della produttività, oggi al palo. Impresa quanto mai ardua se pensiamo che una quota crescente dei futuri lavoratori avrà i capelli bianchi e sarà sempre meno incline agli aggiornamenti tecnologici e a tutte le necessarie innovazioni. Sta di fatto che senza un deciso cambio di passo nella produttività, nel prossimo ventennio (22 anni per l’esattezza), l’impatto del crollo demografico sarà una discesa del prodotto interno lordo del 15% e del reddito pro-capite del 13. A questi risultati arrivano i ricercatori della Banca d’Italia che hanno rielaborato per sotto-periodi un loro recente studio, avvertendoci sui rischi depressivi del declino demografico italiano.
Declino cominciato nel 2015. Da allora, ricorda il Censis nel suo ultimo rapporto, sono spariti 436 mila residenti, l’equivalente degli abitanti di Pescara, Terni, Piacenza e Ancona, messi insieme. E la quota degli over 65 è salita al 22,8% della popolazione. Risultato inevitabile di quel mix tra denatalità e longevità che caratterizza la nostra epoca. Ma questo è ancora niente rispetto a quello che ci attende. Immaginiamoci proiettati nell’anno 2041: l’enorme massa dei baby boomers è già in pensione da tempo, l’esercito dei capelli bianchi sale a un terzo del totale (di cui il 32% di ultraottantenni). Sono sei milioni in più rispetto ad oggi. Gli under 54 invece sono otto milioni in meno. La spesa previdenziale tocca il suo picco: 16,3% del Pil secondo la Ragioneria, 18,3 secondo l’Eurostat. Se nel frattempo non si sarà posto rimedio in qualche modo, il prodotto lordo, come si diceva, sarà sceso del 15% e quello pro-capite del 13. Questo perché il contributo alla crescita dovuto alla demografia, ossia alla quota di popolazione attiva, già negativo da qualche decennio, si trasformerà in un vero e proprio boomerang. E avremo anche un aiuto minore da parte degli immigrati, il cui flusso, secondo le previsioni Istat, proprio in quell’anno si ridurrà di 80 mila ingressi. Il loro contributo sarà ancora positivo ma ben lontano dalle vette raggiunte nei primi anni del Millennio. Bastano due dati di Bankitalia per dimostrare come gran parte del nostro benessere sia stato garantito nel recente passato proprio dall’immigrazione: tra il 2001 e il 2011 il Pil è salito del 2,3%; senza immigrati sarebbe sceso del 4,4. Tra vent’anni ci dovremo scordare un sostegno così sostanzioso: gli stranieri in arrivo – dicono i ricercatori – preferiranno sempre di più i Paesi del Nord Europa al nostro, mentre nello stesso tempo si prevede che prosegua il deflusso di giovani laureati dall’Italia.
Il risultato, insomma, è che, insieme allo spopolamento della Penisola – 1,2 milioni di residenti in meno nei prossimi vent’anni, 5,6 nei prossimi quaranta (come gli abitanti di Roma, Milano, Napoli e Genova messi insieme) – verrà meno quella massa critica di lavoratori in grado di produrre come prima, di assicurarci lo stesso benessere. Solo dopo il 2041 il fenomeno si attenuerà fino ad annullarsi per via del passaggio a miglior vita dell’enorme massa di baby boomers. Ma fino ad allora, come potremo frenare la caduta del Pil? Tra gli antidoti ai quali potremmo ricorrere, ci sarebbe ovviamente una politica che imponesse di restare al lavoro oltre i 67 anni, politica che verrebbe giustificata dal previsto allungamento della vita attesa. L’esatto contrario di Quota 100. Ma anche continuando a lavorare fino a 69 anni, non riusciremmo a invertire la discesa del Pil e del reddito pro-capite. Si potrebbe anche favorire una maggior partecipazione delle donne al lavoro e aumentare gli anni medi di istruzione, ma anche in questo caso, l’effetto recessivo verrebbe solo ridimensionato e al massimo annullato. Il segno “più” davanti al Pil torneremo a vederlo solo se faremo fare un bel balzo in avanti alla produttività. Se prendiamo un arco temporale maggiore (i prossimi quarant’anni), un aumento dell’1% annuo determinerebbe una crescita del reddito pro-capite del 33%. Obiettivo possibile ma assai improbabile, se pensiamo che da vent’anni la produttività italiana è ferma, e se consideriamo che lavoratori sempre più anziani saranno anche meno produttivi. Il Fondo monetario internazionale stima a questo riguardo che nei prossimi vent’anni l’invecchiamento della forza lavoro ridurrà la crescita della produttività del 4%. E questo perché, nonostante la loro maggiore esperienza, le fasce più anziane di lavoratori hanno competenze via via sempre più obsolete, si adattano peggio alle innovazioni tecnologiche, e tendono ad avere una salute più fragile. Eccessivo pessimismo? Forse. Certo è che le previsioni targate Fmi potrebbero essere smentite se solo fossimo in grado di mettere in piedi un sistema efficiente di “formazione continua”, che partisse dai giovani fino ad allargarsi ai cinquantenni e ai sessantenni.