Si potrebbe preparare un anno di delisting a Piazza Affari. Dove si sta sommando una serie di fattori favorevoli all’addio al listino di alcune società, a cominciare da quotazioni abbastanza basse rispetto ai massimi storici. Il delisting di Damiani potrebbe fare così da apripista ad altre operazioni. Proprio il gruppo della gioielleria, del resto, aveva tutte le caratteristiche per un’operazione del genere. La scorsa settimana Leading Jewels, controllata interamente dalla stessa famiglia Damiani, ha promosso un’Opa totalitaria sulle azioni della maison della gioielleria quotata in Borsa dal 2007. L’offerta ha riguardato tutti i titoli Damiani in circolazione: ossia il 16,74%, escluso il 58,83% in mano a Leading Jewels e il 17,7% posseduto dai fratelli Guido, Giorgio e Silvia Damiani. L’Opa ha riconosciuto 0,855 euro per azione, con un premio del 5,04%; il valore massimo toccato dal titolo nelle ultime 52 settimane è stato di 1,09 euro.
Cosa insegna il delisting di Damiani? Da monitorare sono, secondo diversi addetti ai lavori, tutte le società controllate da un azionista forte, magari una famiglia, con una quota importante di capitale azionario e di conseguenza un flottante ridotto. In linea teorica sono diverse le società con caratteristiche di questo tipo. La domanda da porsi è però anche un’altra: quale potrebbe essere la finalità del delisting? La famiglia Damiani ha, dal canto suo, preferito dire addio alla borsa per cercare altre strade di crescita, magari di fusione con altri operatori. Dando uno sguardo al listino qualche azienda con queste caratteristiche esiste. Il gruppo Mondadori, per fare un esempio, è oggi controllato dalla Fininvest che è progressivamente salita al 53,3% del capitale: per delistare il titolo sarebbero necessari quindi circa 200 milioni di euro, una somma non eccessiva (si veda articolo qui a fianco). La società fa capo per oltre il 70 per cento al fondatore Mario Moretti Polegato e il titolo oggi quota 1,15 euro ben lontano dai massimi delle ultime 52 settimane a 3 euro. La capitalizzazione è molto a sconto: circa 300 milioni di euro. Tuttavia la società ha sempre smentito un piano in questa direzione.
Altra tipologia di società teoricamente da inserire in questa lista di possibili candidati al delisting, comprende tutti quei gruppi con un azionariato frammentato oppure le cosiddette public company: un caso sotto i riflettori, che unisce tutte le caratteristiche, è ad esempio Cerved. Il gruppo è uno dei pochi casi a Piazza Affari con un flottante pari al 100% del capitale, dopo l’uscita progressiva dall’azionariato del fondo Cvc. Il fondo aveva infatti comprato Cerved nel 2013 per 1,13 miliardi di euro. Poi nel 2015 Cvc ha venduto per 312 milioni di euro con collocamento accelerato (accelerated bookbuilding) un pacchetto di 47.655.000 azioni, pari al 24,4% del capitale, cioè l’intera partecipazione in Cerved che era rimasta in portafoglio al fondo dopo l’Ipo e le successive cessioni sul mercato. Oggi il titolo quota 7,15 euro, valore ben lontano dai massimi delle ultime 52 settimane a 11,75 euro e più vicino ai minimi a 6,3 euro. Ha una capitalizzazione di circa 1,39 miliardi, cioè più o meno proprio quanto pagato da Cvc nel 2013. Ma rispetto ad allora la società, diventata totalmente contendibile, è cresciuta e si è sviluppata: è diventata soprattutto una piattaforma di servicer nel settore dei non performing loan, area che sta riscuotendo grande interesse da parte degli investitori esteri pronti a pagare multipli elevati.
Ma uno sguardo va dato anche a tutte quelle situazioni di azionariato instabile e in evoluzione. Che dire ad esempio del gruppo Ovs, dove l’azionista, il fondo Bc partners, tramite il veicolo Cie Management Limited, è progressivamente sceso nel capitale fino a detenere l’attuale 17,8%? In dicembre la Tamburi Investment è salita al 3% di Ovs, alimentando le speculazioni su possibili interessati all’azienda. In realtà le speculazioni in questo caso si auto-alimentano per due ordini di motivi: da una parte il fondo Bc partners dovrà, prima o poi, uscire dalla compagine azionaria e dall’altra parte il titolo è sceso molto negli ultimi mesi perdendo quasi l’80% del valore. Oggi il titolo quota 1,121 euro, lontanissimo dai massimi a 6,2 euro. Il problema è che Bc Partners non ha alcun interesse a cedere ora le sue azioni a livelli così depressi.
Tuttavia Ovs, al di là degli ultimi risultati deludenti e del profit warning, ha una buona quota di mercato in Italia e a questi livelli (con una capitalizzazione di 254 milioni e un flottante elevato pari al 73%) potrebbe fare gola a qualche altro investitore. Non è inoltre un segreto che il banchiere Gianni Tamburi e l’ad di Ovs, Stefano Beraldo, si conoscono da anni e c’è chi guarda proprio a questa vicinanza per capire le mosse future di Tip e di altri investitori vicini alla merchant bank italiana.