Fanno chimica di base e specialistica, producono farmaci e/o integratori, lavorano nella cosmetica. Tutte insieme – sono trenta aziende, e sono le migliori – fatturano quattro miliardi. Un aggregato che può non sembrare granché. In fondo, è meno del 5% di quel che vale il settore cui appartengono, il chimico-farmaceutico. Meno, molto meno dei sei miliardi di ricavi della sola Versalis, gruppo Eni, leader della chimica nazionale. E poco, pochissimo più del giro d’affari (3,7 miliardi) di Menarini, numero uno della farmaceutica.
Nella realtà, cambiando prospettiva, quel 5% è tutt’altro che marginale. Ha un suo peso specifico anche tra gli ingranaggi del motore che consente all’Industria Italia di girare e all’economia nazionale – nei momenti opachi, come questo – di non scivolare dalla stagnazione alla recessione.
Sfide globali
Certo: se le trenta aziende Champions del comparto che contribuisce maggiormente alla crescita del Paese, anche quando nel resto della penisola la crescita non c’è, hanno una «taglia» di fatturato tra i 49 e i 385
milioni, un problema esiste. Non è legato unicamente ai limiti della frammentazione. Le piccole e medie imprese sono la spina dorsale del nostro sistema manifatturiero, hanno individuato e spesso inventato nicchie di mercato in cui non hanno rivali neppure tra le grandi multinazionali, all’eccellenza intrinseca del timbro «made in Italy» hanno saputo aggiungere innovazione, tecnologia, super competenze. E tuttavia, è indubbio che andare per il mondo con queste dimensioni è complicato. Per chiunque, e per loro infinitamente di più. Nella chimica i leader globali si chiamano Dow o Basf, e sono colossi da 70 miliardi di euro; nella farmaceutica la Johnson & Johnson va verso gli 80. Significa che basta uno appena dei loro bilanci per «fare» quasi i ricavi dell’intera industria italiana di entrambi i settori: 55,7 miliardi la chimica, 32 la farmaceutica. Totale, 88,7 miliardi.
Eppure, a dispetto delle apparenze, l’uno e l’altro comparto corrono, conquistando leadership chiave, e il ritmo più alto è proprio quello dei trenta piccoli (solo quanto a dimensioni) Campioni selezionati per L’Economia dall’ufficio studi di ItalyPost. Dicono le statistiche che è stato il chimicofarmaceutico, insieme all’automotive, a trainare la ripresa del manifatturiero e dunque del Paese subito dopo la Grande Recessione. Ma, a differenza dell’automotive, qui poi non si è innestata una nuova crisi. E se è vero che resta insuperato il record del 2017, quando lo sviluppo fu del 5,6%, è vero anche che il rallentamento successivo non si è trasformato in decrescita. La performance complessiva degli ultimi quattro anni continua a essere superiore al 10%. Se l’Italia che a metà del 2018 ha ricominciato a perdere terreno non è finita in recessione a tutti gli effetti, lo deve in buona parte all’industria chimica e a quella farmaceutica. La prima è il terzo produttore continentale dopo Germania e Francia, la seconda gioca alla pari con i tedeschi e, anzi, li ha sorpassati: l’hub europeo del farmaco siano noi.
Merito in buona parte dei big, naturalmente, ma anche ai trenta Top Performer «under 500» (milioni di giro d’affari) non scherzano. Ci sono aziende, tra loro, che tra il 2012 e il 2018 hanno aumentato ogni anno il fatturato di oltre il 20%. Si chiamano Olon, Bsp Pharmaceutical, Ibn Savio, Art Cosmetics, Agf88 Holding, e sì: i loro nomi, come quelli di quasi tutti gli altri Champions, sono spesso noti soltanto tra gli addetti ai lavori. Eppure sono imprese i cui bilanci battono il benchmark del comparto a maggior tasso di espansione della nostra economia. I ricavi dei Top 30 sono saliti in media del 9,8% in ciascuno dei sei anni considerati, contro l’1,8% del complesso chimica-farmaceutica-cosmetica. Ogni euro di quei ricavi ha prodotto, negli ultimi tre esercizi, utili industriali pari al 20,3%: quasi otto punti sopra il già eccellente 12,8% di settore. Anche grazie al fatto che i profitti, poi, vengono reinvestiti, i problemi finanziari stanno a zero: 2,4 miliardi di patrimonio netto aggregato bastano e avanzano per definire i Champions del chimico-farmaceutico solidi e assolutamente in grado di autofinanziarsi.
Campioni & colossi
Non è (solo) per questo che i colossi multinazionali di cui sopra se li comprerebbero volentieri, molti dei nostri campioni. E che, non riuscendoci, spesso si «accontentano» di averli tra i fornitori. Il fatto è (sorpresa?) che il tasso di investimenti in innovazione e ricerca è altissimo, soprattutto nella farmaceutica: piccoli, medi e grandi imprenditori ci hanno dedicato complessivamente 1,7 miliardi (sui 32 di fatturato totale) soltanto nel 2018, negli ultimi cinque anni hanno aumentato la spesa del 35% (ben oltre la media europea), sono arrivati a coprire il 7% di tutti gli investimenti italiani in R&S e dunque a fare del settore uno dei grandi big spender (il primo in assoluto se si considera il rapporto con il numero degli addetti).
I leader sono tali perché, spesso, fanno anche meglio. I nostri sono le eccellenze di un settore d’eccellenza, come lo sono la meccanica (cui la settimana scorsa L’Economia ha dedicato la prima tappa del viaggio
«dentro» l’Industria Italia), il sistema moda-tessile e l’agroalimentare (saranno le prossime due puntate). I segreti li racconteranno di persona, venerdì pomeriggio, al secondo appuntamento Champions nelle aule della Bocconi. Case histories direttamente in Università.
*L’Economia, 11 novembre 2019