Teresa Ciabatti, a distanza di quattro anni da La più amata (secondo al Premio Strega 2017), dopo Matrigna, torna in libreria con Sembrava bellezza (Mondadori) in cui racconta come un incidente che segna per sempre la vita della sorella dell’amica della protagonista diventi fatto indelebile e scardini – rimanendo impresso come un trasferello invisibile – le vite di tutti quelli che ne sono stati sfiorati. Abbiamo intervistato l’autrice, nuovamente in lizza per lo Strega, con questa nuova fatica.
Qual è il nucleo cuore di Sembrava bellezza? La più amata, il tuo precedente romanzo è stato molto dibattuto, ha sfiorato il successo assoluto e ti è restato addosso come una sorta di “maledizione”: tutti finiscono per parlarne anche quando l’oggetto di discussione è questa tua nuova opera. Qual è l’idea fondante per la quale hai poggiato la penna sul foglio, stavolta?
Per me il cuore del romanzo è la malattia. Tutti i personaggi si definiscono nella distanza, e quindi nella vicinanza, al “danno”, che in questo caso è rappresentato dal personaggio di Livia. Anche gli altri, dalla voce narrante, a Federica, l’amica di una vita, fino a Massimo giudicheranno le persone e il mondo in base a quest’evento irrimediabile: è come se, dopo l’incidente di Livia, ne siano così condizionati che il livello di intelligenza diventa per loro il primo parametro di giudizio sulle persone. Quando la figlia della protagonista le dice che vuole partecipare a un quiz televisivo lei ne è, per questo, disperata.
Il tuo modo di raccontare qui, come in Matrigna, ma ancor più e per la prima volta ne La più amata è sempre molto diretto: nudo. Dietro alla storia, che per quanto “possibilmente biografica” (avvisi il lettore con delle parentesi che è tutto vero) resta ch’è fiction, c’è un uso sincero della lingua, una voce molto rara nel panorama letterario, si direbbe persino unica. È frutto di una tua precisa scelta e quanto ti viene naturale o devi perfezionarla?
Ci sono arrivata dopo tanti anni di scrittura, dopo tanti libri, con La più amata. I romanzi precedenti sono stati per me prove, tentativi: la conclusione di quei quindici anni di scrittura è un punto di arrivo, quindi la mia assolutamente non è una scrittura di getto, non è mai “non pensata” e tantomeno un flusso di coscienza. È proprio qualcosa di molto ragionato e intenzionale. Che poi venga percepita come qualcosa di molto spontaneo accade perché io voglio creare quell’effetto di estrema vicinanza, di verità assoluta. E ciò avviene attraverso la scrittura, non in base a quello che racconto, perché il dolore, la verità di cui scrivo in realtà non sono i miei, ovvero lo sono nella misura in cui tutti gli scrittori raccontano. Io sono per l’“autobiografia menzognera”. Nel libro di fatto io ci sono, sì, ma molto meno di quanto non venga esibito.
Se tu me lo dovessi spiegare o me lo potessi insegnare, come si fa ad ottenere questo risultato, cosa mi diresti? Come fai?
Su questo lavoro tantissimo: quello che faccio, dove posso, è toglierle le congiunzioni. Non è vero che non uso le subordinate, le uso, ma tolgo le congiunzioni, se possibile naturalmente. La mia scelta deriva da una riflessione, cioè che quel tipo di lingua (quella con le subordinate, con la tendenza a gerarchizzare, a creare per forza un nesso di causa-effetto) sia un’imposizione, quasi una manipolazione. In quel modo si offre al lettore un mondo con già una spiegazione, e si impone la propria visione. Questo, secondo me, oggi appartiene al linguaggio politico e al linguaggio televisivo. Dal momento che gli snob guardano poco la televisione non lo sanno, ma gli opinionisti televisivi usano tantissime congiunzioni, e tante subordinate. La lingua che un tempo era letteraria è stata “mangiata” dalla televisione e dalla politica soprattutto. Di questo lo scrittore deve accorgersi, e, se non se ne accorge, rischia di riproporre lo stesso linguaggio. Perciò penso che la televisione vada vista: per me dovrebbe essere un imperativo, perché dice a che punto siamo, mostra ciò che in letteratura non si può più usare e quindi cosa bisogna inventarsi di nuovo. Al contrario la mia è una lingua che pretende un impegno maggiore da parte di chi legge, dà al lettore una responsabilità in più perché non c’è alcuna intenzione di indottrinare. Non è affatto colloquiale, tutt’altro.
Hai mai paura che per questo, e per altre ragioni, tu possa non essere capita?
Io sono assolutamente non capita. Tante volte i lettori mi scrivono che libro è piaciuto tantissimo e chissà quanto dolore ho provato per decidere di espormi in questo modo. Ma io non mi sono realmente esposta, perché la protagonista di me ha solo il corpo e, alla mia età, ci si può permettere di parlare del proprio corpo senza complessi e senza tabù: diventa quasi una liberazione. Nel mio romanzo c’è tutto quello che uno scrittore normalmente mette in un libro – c’è il dolore che appartiene sempre allo scrivere – ma in Sembrava bellezza l’autobiografia è molta meno di quanta venga esibita. In realtà io vado contro l’autofiction. I miei libri sono finte autofiction, cioè romanzi puri.
Spingerai ancora di più in questa direzione?
Mi interessa molto continuare sulla strada del narratore che non impone una lettura e non mette ordine. Voglio cercare la forma più libera per coinvolgere il lettore e per dargli un ruolo diverso, molto meno passivo. Cercherò sempre più una forma linguistica che non sia di indottrinamento, sempre più distante dalla lingua politica e dalla lingua televisiva. Però credo che per molto tempo questa voce narrante di donna che ho creato non tornerà a parlare.
Vedendo di nuovo al romanzo: che rapporto c’è tra la disgrazia autoinflitta e il destino? Pare uno dei temi fondanti di Sembrava bellezza…
In realtà non lo so. Mi piacerebbe dire che il destino uno se lo fa da solo, ma è un luogo comune. È tutto sempre meno controllabile di quello che noi vorremmo, e questo mio romanzo lo testimonia. L’unico rimedio è cercare di arrivare preparati agli eventi, e questo per fortuna fa parte dell’invecchiamento: con il passare del tempo si è sempre più pronti al destino, sia ai fatti che travolgono per caso sia a quelli autodeterminati, quindi si sa meglio come risparmiarsi una parte di dolore. È qualcosa di prodigioso.
Il rapporto tra il cinismo e l’innocenza, nell’essere romanziera, come lo gestisci?
È molto tutto legato alla manipolazione e alla rappresentazione di sé, quindi è in continua contraddizione. C’è sempre una distanza tra come noi ci rappresentiamo ciò che siamo realmente. Ciò accade nella vita normale, la televisione lo evidenzia particolarmente, per non parlare poi del cinema che è la finzione per eccellenza e non ha altro che questa intenzione. Dipende sempre a che grado di consapevolezza siamo di questa distanza, e mi fa molta paura quando uno si ostina a rimanere fedele a una rappresentazione. Quindi racconterò sempre la contraddizione, un misto di cinismo e innocenza. Per fortuna solo nella rappresentazione estrema, nella maschera, possiamo essere totalmente cinici o totalmente innocenti, invece la sfida è riuscire a rendere tutto questo insieme, a restituirlo in un unico personaggio in un singolo momento della sua vita.
*Il BoLive, 14 marzo 2021