Ci sono nell’accordo di Bruxelles sul Recovery Fund autentici aspetti innovativi (come hanno sottolineato sul Corriere Mario Monti il 22 luglio e Maurizio Ferrera il 25). È giusto interpretare il risultato come una vittoria del campo europeista. Tuttavia, anche se oggi molti, osservando le novità, pensano che il cammino dell’integrazione possa finalmente riprendere con passo spedito, è lecito avere qualche dubbio. Non solo perché le divisioni fra i Paesi del Nord e del Sud, dell’Est e dell’Ovest, non sono superate. Ha ragione chi denuncia lo squilibrio che c’è fra i nazionalisti antieuropei che parlano al cuore delle persone, mobilitano sentimenti e emozioni (così, ad esempio, Giuliano da Empoli sul Foglio di alcuni giorni fa) mentre gli europeisti sono in grado di appellarsi solo al buon senso, non sanno suscitare emozioni.
Bisogna però chiedersi perché le cose stiano così. Nonostante Ventotene e le idee e i sentimenti di ristrette élite federaliste, l’Unione (già Comunità europea) è nata ed è cresciuta con un compito preciso: contribuire a soddisfare le (sacrosante) esigenze di benessere degli europei. Il suo più grande successo è il mercato unico. Forse, e sperabilmente, risulterà esserlo anche la moneta. Ma, su questo punto, è troppo presto per pronunciarsi. Per essere messa definitivamente in sicurezza, la moneta unica richiederebbe una qualche unità politica. Ma tale unità non è affatto in vista.
Non si può sfuggire al proprio passato. Sorta, durante la Guerra fredda, per soddisfare bisogni economici sotto il manto protettivo della Nato e degli Stati Uniti, l’Unione può solo fare ciò che è stata «addestrata» a fare: cercare compromessi che, di volta in volta, salvino capra e cavoli, che impediscano il ristagno o il regresso dell’economia europea, il che, alla lunga, porterebbe alla rovina le stesse istituzioni europee. Anche a costo di pagare prezzi politici. Come cedere di fatto alle richieste dei Paesi del gruppo di Visegrad in tema di Stato di diritto o mantenere l’ambiguità sul rapporto fra i governi nazionali e la Commissione nel controllo sull’uso dei fondi (Sergio Fabbrini, Sole24ore , 26 luglio).
I nazionalisti antieuropei possono giocare sulle emozioni perché fanno leva su depositi di memorie e sentimenti che appartengono alle varie comunità nazionali. L’Europa può solo aggrapparsi alle convenienze. È vero, in gioco c’è la difesa della civiltà democratica, e delle sue istituzioni: la loro sopravvivenza verrebbe compromessa se al benessere seguisse il malessere, alla ricchezza la penuria. Ma si tratta di un messaggio che, ancora una volta, fa appello alla razionalità e al buon senso, non può avere la stessa forza emotiva del richiamo ai simboli della comunità nazionale nel momento in cui quei simboli vengono mobilitati contro un «nemico» (gli italiani spreconi, i tedeschi prepotenti e incombenti, i francesi arroganti, eccetera).
Sono le ragioni per cui sorse e per le quali ha avuto per decenni una storia di successo che oggi impediscono all’Unione di aspirare ad essere altro e di più. Come hanno sempre sostenuto i federalisti, ad esempio, non c’è unità politica possibile se non si riesce a costruire un sistema di difesa comune. Ma la “difesa europea” resta oggi lontana come in passato.
Certi tecnici del settore guardano con soddisfazione e ottimismo all’ European Defence Fund (Edf), il piano strategico di investimenti per la difesa europea (benché il recente accordo di Bruxelles ne abbia ridotto drasticamente l’entità). Ma davvero possiamo sostenere che, grazie a quei previsti investimenti, la difesa comune sia ormai oggetto di una «politica europea»? Al momento, non sembra. Le forti convergenze fra Paesi consapevoli di correre gli stessi rischi (una consapevolezza necessaria perché si affermi una difesa comune) non ci sono in Europa. Ciò significa che, investimenti o no, quanto a difesa, essa continua a non avere alternative alla Nato. Si pensi, ad esempio, a come la rivalità fra italiani e francesi abbia danneggiato i due Paesi (e l’Europa) nella vicenda libica. Quella rivalità ha avuto una parte nel consentire che l’impero ottomano – chi lo ha ereditato- riconquistasse la Libia cento e passa anni dopo averla perduta. Oppure si pensi a Brexit (l’Unione non può più contare sulla potenza militare britannica) o all’indisponibilità tedesca a svolgere un ruolo più deciso in questo ambito. Si pensi, infine,al fatto che solo una parte dell’Europa sia oggi consapevole dei rischi a cui la espone l’attivismo antieuropeo (i continui tentativi di influenzare/intossicare la vita pubblica del Vecchio continente ) da parte delle potenze autoritarie. La difesa comune resta un miraggio. Altra è sempre stata la «missione» dell’Unione europea.
L’Europa non è la Cina, la sua cifra non è l’unione ma la disunione, non la centralizzazione del potere ma la sua dispersione, il pluralismo. La costruzione europea (che tanto serve agli europei e al loro benessere), non avrà mai caratteri «statali», contrariamente a quanto alcuni hanno immaginato in passato. Dal pluralismo possono nascere leghe o , nella migliore delle ipotesi, blande federazioni, non Stati (nemmeno «federali»). È pertanto improbabile che quella costruzione possa avere un futuro se non rimane «incastonata» entro il mondo occidentale. Tradotto, ciò significa (checché ne pensassero i gollisti di un tempo e ne pensino i loro eredi attuali) : non c’è futuro per l’Europa se non viene ricostituita la sua antica «relazione speciale» con gli Stati Uniti. Per inciso, questa è anche la ragione per cui le prossime elezioni presidenziali americane sono così importanti.
La società aperta con le sue libertà civili ed economiche , la democrazia liberale, la rule of law (il governo della legge), sono patrimonio comune del mondo occidentale. Riescono a mobilitare emozioni solo quando l’opinione pubblica (o una sua parte significativa ) ne avverte la fragilità, quando è messa nella condizione di comprendere quali pericoli esso corra, quali siano le minacce pendenti.