Quando Marta Tonello, a Thiene, lancia la prima slide l’effetto non è calcolato. Lei non la legge, quella parola, ma non ce n’è bisogno: è su «kanban» che cade l’attenzione. Il termine è giapponese, significa «insegna», è la chiave del sistema per massimizzare la produzione inventato dagli ingegneri della Toyota. Chi continua a pensare che le piccole e medie industrie abbiano idee ma non possano innovare più di tanto, perché non hanno i mezzi né la cultura, e chi del Nord-Est è rimasto al fermo-immagine di imprenditori geniali e instancabili ma tutto intuito e poca visione di lungo termine, faccia due chiacchiere con Marta e con Giulio De Bardi, il suo «complice» di kanban. Insieme non arrivano a sessant’anni. Sono figli di due dei tre soci fondatori della Tecnolaser. E sì, lo ammettono: quando hanno proposto ai padri di introdurre il Toyota Production System lì a Curtarolo, Padova, fabbrica da un centinaio di dipendenti e 25 milioni di fatturato, questa è stata la reazione: «Pareva impensabile quanto lo sarebbe stato nel Nord-Est di vent’anni fa». Ora però l’innovazione di processo è accanto a quella di prodotto. E funziona. Tecnolaser è una delle società più piccole, tra le 500 della classifica L’Economia-ItalyPost, ma investe, cresce, guadagna agli stessi ritmi di chi ha spalle (un po’) più larghe.
Idem per la Laer, 800 chilometri più a sud. Il giro d’affari è lo stesso, le performance sono a due cifre. Guardando solo i numeri sarebbe impossibile distinguere Andrea Esposito – e gli altri imprenditori incontrati venerdì a Napoli, nella tappa finale del nostro primo viaggio nell’Italia dei Champions – dai top performer del Nord industrializzato. Dopodiché, se è vero che nel Mezzogiorno è tutto infinitamente più difficile, l’amministratore unico della Laer dà nei fatti un colpo alle due retoriche meridionaliste: la colpevolista e la buonista.
Per dire. Il problema principale di tutte le 500 Pmi di assoluta eccellenza è che potrebbero crescere persino di più, se non avessero problemi di personale. Non trovano ingegneri e non trovano magazzinieri. Soprattutto, non trovano i tecnici specializzati intermedi: occhi e mani abili nell’uso di un torchio, un telaio, una saldatrice ma declinati, ormai, in versione Industria 4.0. È stato un tema centrale di ciascuno dei dieci incontri organizzati, sui vari territori, da L’Economia e ItalyPost. E se è un problema al Nord e al Centro, non è difficile immaginarne le dimensioni al Sud. Ragion per cui un’azienda come la Laer, che progetta, produce e assembla strutture per l’industria aeronautica (Leonardo in testa, che però sta riorganizzando: alle nuvole che questo porta con sé, le migliori aziende del polo campano reagiscono spingendo sulla diversificazione all’estero), avrebbe abbondante materiale da lamentela. Esposito in effetti le denuncia, le carenze. Ma non sta fermo ad aspettare interventi divini: per «istruire» i dipendenti di oggi ha rilevato una scuola di formazione, per preparare quelli di domani sta collaborando con due istituti dell’area all’avvio di un corso ad hoc.
È una buona notizia? Da un lato. Dall’altro il «fai da te» in un terreno così delicato mette drammaticamente a nudo i ritardi del Paese nello stare al passo con chi, per il Paese, genera sviluppo. Non vale solo per il sistema-scuola, che anzi qua e là qualche «riconoscimento di progresso» lo riceve: dai Meet the Champions a Piacenza e Parma, per citarne un paio, sono usciti con un «sì, cominciano a funzionare» sia i percorsi post-diploma degli Its, sia l’alternanza scuola-lavoro. Dopodiché, a rischio scomparsa restano mestieri storici e fondamentali per la qualità made in Italy. Là dove l’artigianato incontra l’industria, e con un maestro calzolaio o cenciarolo fa la differenza tra noi e il resto del mondo, non può bastare la singola iniziativa privata. E il punto, raccontavano a Prato i due fratelli alla guida di Manteco, Marco e Matteo Mantellassi, «è che sulla trasmissione delle competenze anche l’Unione Industriali è abbastanza ferma».
È l’assaggio di un discorso complesso e delicato, che porta dritto dritto alla questione delle rappresentanze. Questi – i Champions – sono imprenditori che ai loro dipendenti chiedono flessibilità ma ne offrono altrettanta, e qualcosa di più: tengono conto delle esigenze familiari, finanziano master e corsi universitari, allo stipendio aggiungono incentivi e congrui pacchetti- welfare. Vanno ben oltre, a partire dalla paga-base, i contratti nazionali di riferimento.
Raccontava a Padova Giorgio Agugiaro, il signore dei molini: «Chi lavora, bene, 40 ore a settimana per mille euro al mese, per me non è un lavoratore: è uno schiavo». La si può prendere come una provocazione (ma lui, i suoi, li paga effettivamente il doppio). Non lo è. Funziona così in molte aziende Champions. E tutte, tra i fattori del loro successo, al primo posto mettono i dipendenti. Morale: in queste aziende il sindacato viene spesso anticipato e scavalcato a sinistra, e perciò anche Confindustria si ritrova con qualche problemino. Qualcuno non è neppure iscritto, qualcuno sì, qualcuno medita di uscire. Come Eugenio Alphandery, l’uomo che ha trasformato in un brand globale le Officine Santa Maria Novella: «Non so se resterò: non abbiamo rappresentanza».
Non è il solo a pensarla in questo modo, e non è l’unico ad allargare il concetto. L’eccellenza italiana che vince all’estero, e spesso esporta la quasi totalità della produzione, bene o male promuove Sace e Ice, ma lì si ferma: «Ambasciate e consolati si interessano solo di prosciutti e moda». Con il che, Roberto Cimolai è sicuramente tranchant. Mai quanto Giorgio Cattelan, quando gli si chiede come si regolano, che influenza hanno sui loro business le tensioni politiche e i cambi di maggioranze e governi: «Non le guardiamo nemmeno. O non faremmo più niente». Sintetizza un pensiero comune. Per la politica di cui sopra non è un bel segnale. Neppure per quella – maggioranza e opposizione – che comunque i Champions hanno votato.
*L’Economia, 18 giugno 2018