In un’epoca nella quale siamo travolti dal concetto del cosiddetto storytelling – che spesso sconfina nella narrazione ben confezionata di storie – capita ancora di constatare come fior di imprese, industrie e comunicatori non si siano accorti, o, peggio, abbiano completamente trascurato il potere “narrativo” – vero, ben documentabile, a tratti sorprendente – dell’epopea dell’età industriale e produttiva in Italia.
C’è un equivoco di fondo, perpetrato ai danni di una intelligenza costruttiva ed efficace di un fenomeno così importante e decisivo per le sorti di un Paese, diventato in pochissimo tempo da prevalentemente agricolo a una potenza industriale (e, ora, manifatturiera), che lascia, in molti casi sbalorditi. Per inspienza, per superficialità, per fraintesa lettura di alcuni fenomeni economici e sociali che sono l’ossatura italiana ma non sono riusciti a penetrare, in profondità, né nell’immaginario collettivo, né, e questo è molto più grave, nella “interpretazione fine” che, invece, spetta ed è compito precipuo, degli intellettuali.
Il libro di Giuseppe Lupo, Le fabbriche che costruirono l’Italia (nato proprio come rubrica di questo giornale) è un libro disincanto e amaro. Eppure, pieno di ammirazione, di passione, di comprensione intima di fatti, persone, società: è pieno di una com-passione, probabilmente postuma, che rende onore a una storia che deve essere conosciuta meglio. E la cosa più preoccupante è che questa inconsapevolezza sia di tutti dei protagonisti di quella storie, di molti che hanno tentato di intraprendete strade diverse e di chi, purtroppo, avrebbe la voglia e la volontà profonda di narrare un riscatto ma non riesce a farlo.
Il lavoro di Lupo ha una valenza culturale enorme, che non sempre si coglierà a prima vista. Se l’Italia ha smarrito, in gran parte, quell’ “orgoglio industriale” che un uomo di impresa come Antonio Calabrò non si stanca di declinare al contemporaneo, è proprio perché in Italia perdura una diffidenza e un’ostilità verso la cultura e la realtà dell’industria che, abbiamo scoperto, amaramente e sorprendentemente, è, in molti casi, delle stesse imprese e di chi ci lavora.
Ma non è, quella di Lupo, un’operazione nostalgia. È un progetto di futuro, al contrario: il recupero, filtrato da scrittori e artisti che nel passato si sono confrontati con il mondo industriale, è uno sguardo in avanti e un tentativo di gettare il cuore oltre l’ostacolo e facendo, del cuore, della com-passione, appunto, una possibile chiave di lettura di una identità travisata e da recuperare.
Il disincanto, si diceva. Che deriva dalla constatazione delle cose e da un retropensiero che, inevitabilmente, si è insinuato e ha via via preso corpo durante le puntate. Ed è questo. Nella geografia non scontata che si è scelto di indagare, con grandi realtà simboliche del Novecento italiano, ma anche con paesaggi e luoghi produttivi molto più appartati e probabilmente più significativi dal punto di vista della cultura che non della produzione, è venuto fuori che una parte notevole dell’equivoco che ancora oggi, in piena epoca di industria 4.0 e dematerializzazione del lavoro (quale lavoro, poi?) ha investito il mondo della produzione. In sostanza è venuto fuori che quel mondo dell’industria non sia stato capito dagli intellettuali che invece dovevano interpretarlo e porlo al futuro.
Intrappolati da facili schematismi, molti scrittori, hanno saputo vedere solo il lato oscuro della fabbrica, lo stress, il lavoro duro, il meccanismo. Senza rendersi conto che, invece, la storia dell’industrializzazione italiana (in molti casi felice e dal “volto umano”) era, ed è, anche una storia del riscatto della società italiana. Nella storia dell’immaginario collettivo italiano, gli intellettuali, colpevolmente o per incapacità di lettura, non hanno capito con che cosa si confrontavano.
Ed era l’arrivo della modernità, ed era il processo di far crescere e diventare cittadini più consapevoli, interi strati di società che non avrebbero avuto altre possibilità per farlo. Nella bilancia del progresso, di ciò che si perde e di ciò che si guadagna, inspiegabilmente, si è continuato a zavorrare solo il lato delle perdite, dimenticando di valutare bene cosa e quanto fosse il guadagno sociale, non economico. Ecco: questo libro è un tentativo di recuperare una narrazione che aiuti a ragionare con equilibrio su questi fatti. Ed è, per questo, una narrazione civile. E operosa.
*Il Sole 24 Ore, 13 Febbraio 2020