C’era molta attesa per l’ultimo romanzo di Haruki Murakami, “L’assassinio del commendatore”. Questo perché l’eterno candidato al Nobel è molto di più che un semplice autore di successo: è un vero fenomeno pop. La quattordicesima fatica dell’autore di “Norwegian Wood” ha già venduto un milione di copie nella sua versione originale giapponese; e in tutto il mondo (viene tradotto in cinquanta lingue) innumerevoli fan fanno la fila per assicurarsi una copia. Simili scene si vedono soltanto per Harry Potter. Murakami ha tradotto molte opere americane e, in quest’ultima sua fatica, si intravedono in filigrana i suoi autori preferiti.
È come se gli sceneggiatori di “Lost” avessero adattato per una serie tv le storie di fantasmi giapponesi. Il protagonista è un anonimo artista trentaseienne, specializzato in ritratti, che dopo sei anni di matrimonio viene piantato dalla moglie e comincia a girovagare senza meta. «Guardate abbastanza in profondità dentro qualsiasi persona e troverete sempre qualcosa che brilli al suo interno». Il tema dello shining, del luccichio, è onnipresente; ed è proprio al film di Kubrick (e soprattutto a Stephen King) che bisogna guardare, quando il pittore accetta di vivere in una casa appartenuta a un artista, in una zona collinare a Sud di Tokyo, in cui presto si verificano fenomeni soprannaturali. Nella soffitta il protagonista si imbatte in un quadro che ritrae la famosa scena del Don Giovanni di Mozart: l’assassinio del commendatore, appunto. Strano come i ritratti demoniaci siano sempre chiusi in qualche solaio, da Oscar Wilde in poi.
Gli ingredienti per il thriller ci sono tutti; e il suono di un campanaccio che si ode nottetempo non fa che accrescere la componente gotica del romanzo.
Il Gatsby del romanzo è un piacente signore dai capelli bianchi, Menshiki, che in giapponese vuol dire: evita i colori. Attraverso la sua richiesta di un ritratto la vita del pittore senza volto cambierà per sempre. Come negli altri libri di Murakami, la musica è importantissima: da Der Rosenkavalier di Richard Strauss alla Rosamunde di Schubert. Ma ciò che conta è quello che nell’arte «non viene mostrato»; e il lettore si ritrova a voltare pagina, come in una maratona di binge watching in tv: non alla ricerca di quei segreti che «tutti abbiamo ma non possiamo rivelare» (e che conosciamo già), ma della catena di eventi, e di idee, che ci hanno portato a essere come siamo. Perché l’importante, in fondo, è crederci.
*Il Messaggero, 16 ottobre 2018