Valutare quanto l’utilizzo delle tecnologie digitali trainate dalle politiche 4.0 sia diffuso tra le imprese italiane e in particolare le piccole e medie, è certo tema importante in sé. Ancora più interessante mi sembra capire se l’innovazione tecnologica abbia favorito una nuova morfologia del capitalismo italiano. I numeri ci dicono che le politiche un bersaglio l’hanno raggiunto: gli investimenti sono ripartiti rinnovando un capitale fisso che ne aveva grande bisogno.
L’impulso sistemico si è dunque propagato, prima alle imprese grandi e medie, internazionalizzate e con le antenne proiettate nel mondo, poi anche alle aziende più piccole e chiuse in una dimensione locale. Eppure la mia sensazione è che il problema non si possa affrontare soltanto riproponendo anche sul tema di impresa 4.0 la tradizionale contrapposizione tra grandi e piccole imprese. Non solo perché il nostro rimane un capitalismo intermedio privo delle grandi imprese-piattaforma che oggi dominano a livello mondiale l’economia dei dati e dell’innovazione. Ma soprattutto perché il problema non è tra grandi e piccole, ma tra chi è incluso o escluso, tra chi è connesso al processo di innovazione e chi non lo è. E anche in questo caso il confine è molto spesso mobile, perché non c’è una divisione tra imprese innovative e imprese che non lo sono, ma un modello ancora relativamente “artigianale” e decentrato in cui le nuove tecnologie interconnesse stanno entrando nella definizione di processi, prodotti, canali.
Per lo più si automatizza e si ricorre a robot per essere più efficienti, per ridurre costi e tempi, per tenere dietro ad un generale processo di accelerazione sociale ed economica. Ma non c’è solo questo. Intervistando i piccoli imprenditori si capisce che si sta lentamente sviluppando una consapevolezza del digitale come elemento fondante dell’impresa e del valore. Probabilmente nelle Pmi italiane c’è più digitalizzazione di quanto si pensi, ma si sviluppa all’italiana. È una innovazione su misura, che si diffonde per innesti parziali.
Si punta alla simbiosi tra industria e artigianalità, ad un ibrido che potremmo definire di artigianalità aumentata. Ne può emergere un modello di impresa nuovo, all’incrocio tra una manifattura che si terziarizza e un mondo del terziario che tende ad assumere metodi, culture, saperi una volta tipici dell’industria. Un passaggio certamente selettivo, perché ciò che indichiamo con l’etichetta di “4.0” va visto al di fuori di qualsiasi determinismo tecnologico, come la necessità di incorporare nella propria “ragnatela” del valore nuove funzioni e saperi. Non è da tutti. Le barriere all’entrata per creare nuove imprese adatte a questa transizione si sono alzate: basti vedere come nei territori del fu capitalismo molecolare, i tassi di riproduzione dell’imprenditoria si siano abbassati drasticamente ormai da molto tempo. In tutto ciò mi paiono decisive due questioni.
La prima riguarda l’imprenditoria più che la dimensione, anche perché oggi forse è più l’ampiezza della rete di utenti-clienti legati ad un’organizzazione di piattaforma che il numero degli addetti, la variabile che rende grande un’impresa. Saperi, cultura, antropologia dell’imprenditore, la sua capacità strategica di incorporare e innestare nuovi saperi e persone, appaiono le variabili determinanti. Il tema di come le nostre società possano riuscire a riprodurre imprenditori adeguati, diviene assolutamente centrale per l’oggi e per il domani.
La seconda questione riguarda la necessità di ripensare il territorio e il vecchio modello distrettuale, come un intelletto sociale diffuso, rete di saperi, capitali, conoscenza formale e contestuale, infrastrutture, senza i quali la transizione dell’imprenditore e dell’impresa difficilmente reggerà. Qui sono centrali politiche che puntino ad innestare in modo generalizzato giovani nativi digitali nelle piccole e micro imprese. Differentemente dal turbocapitalismo delle grandi piattaforme, noi rimaniamo un capitalismo intermedio organizzato in filiere verticalizzate, la cui armatura rimane imperniata sul rapporto tra piattaforme urbane di città medie e poli produttivi diffusi.
Un modello di urbanizzazione regionale nel quale sarebbe utile sperimentare applicazioni dell’intelligenza artificiale e dell’interconnessione delle macchine per aprire nuove filiere legate alla sostenibilità. Su questo piano, importantissimo per i territori, il ruolo delle utilities e dei grandi servizi pubblici a rete come motori di innovazione diffusa è fondamentale. Da come si ridisegnerà lo spazio regionale di questo modello, dipenderà il fatto che la transizione non rimanga patrimonio di una ristretta élite in progressivo sradicamento dal resto del paese.