Curioso Paese il nostro. Abbiamo il maggior numero di piccole e medie imprese d’Europa. Una grande tradizione di aziende familiari, forse un po’ troppo familiari, che però, in quanto a passione per il lavoro, voglia di competere e investire, non sono seconde a nessuno. Lo spirito imprenditoriale è nel carattere italico. Forse è ruspante, individualistico, anarchico. Ma autentico. Pochi i grandi gruppi, questo è vero. Le ridotte dimensioni ostacolano l’aumento della produttività. Sono un limite, spesso invalicabile, lungo l’orizzonte dell’innovazione e della competitività.
Ma il vero problema non è il nanismo. Si nasce piccoli. La questione cruciale è se le aziende sono in grado di crescere e, soprattutto, se vivono in un ambiente che ne favorisce lo sviluppo. Oppure lo limita, persino lo teme. Tutto qui.
E allora, nel guardare con soddisfazione ai tanti campioni del made in Italy che, nonostante tutto, vanno bene, vendono all’estero, guadagnano quote di mercato, dovremmo porci tutti una semplice domanda. Ma le vogliamo o no? I Cinque Stelle e la Lega sono divisi su tutto. Non sul giudizio verso le grandi imprese che non sono proprio amate. Meglio l’intervento dello Stato che la medicina del mercato, non sempre salutare per la verità. L’investitore straniero è visto con sospetto. Ma le nostre aziende per crescere devono poter comprare e produrre altrove. Non ci si può chiudere pensando che gli altri non facciano altrettanto. Viviamo di export. Le norme fiscali non sempre aiutano chi vuole diventare grande. Qualche volta offrono l’occasione a chi, agli occhi del Fisco, vuole sembrare piccolo o trova conveniente rimanere tale.
Ma l’opinione pubblica le ama davvero queste imprese, questi campioni del made in Italy? Qualche contraddizione c’è. Non possiamo essere orgogliosi dei primati raggiunti e, nello stesso tempo, ostacolare insediamenti produttivi o nuove infrastrutture, vagheggiare «decrescite felici«. Fabbriche sì, ma non sotto casa. Se teniamo all’occupazione non possiamo pensare di godere sempre dalle nostre finestre di un panorama sgombro da fabbriche capannoni. L’ubriacatura collettiva per il chilometro zero non si concilia con il compiacimento per i successi internazionali dei prodotti made in Italy. Se i consumatori stranieri facessero lo stesso ragionamento non li comprerebbero. Il costo dell’energia è troppo elevato per le nostre imprese. Opporsi a ogni nuova centrale, al gasdotto, e persino al solare e all’eolico non le aiuta certo. Vanno equilibrate le esigenze, certo.
Ma dicendo no a tutto non c’è benessere. Inutile credere all’idea che le chiusure domenicali dei grandi magazzini non abbiano impatto sul valore delle aziende e soprattutto sul livello dell’occupazione. Si possono odiare le banche e considerare gli istituti di credito come animali rapaci del denaro altrui, ma senza credito alle imprese non si cresce. E oggi l’esigenza di avere fonti alternative di finanziamento esige strumenti che dirottino il risparmio verso le imprese nazionali. Chi pensa che alti rendimenti sui titoli di Stato siano un bene, dimentica che quei soldi servono a rifinanziare il debito dello Stato non a creare, attraverso le imprese, sviluppo e reddito. Strano e meraviglioso Paese il nostro.
L’Economia, 15 marzo 2019