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Pensioni, sistemi pensionistici e riforme previdenziali sono l’argomento di questo libro.
Per la loro rilevanza, le riforme previdenziali possono essere considerate emblematiche del modo in cui le società democratiche, in particolare quelle europee a elevato livello di reddito per abitante, recepiscono e gestiscono i profondi cambiamenti demografici, sociali ed economici in atto a livello globale, oppure cercano di ignorarli, con il rischio di pagare in seguito un prezzo più elevato. Discutere di riforme previdenziali in un talk show accende subito gli animi; chi scrive un libro – e un libro che vuol essere «pedagogico» – corre il rischio che i lettori pensino di saperne già troppo, visto appunto quanto se ne è dibattuto in ogni sede. È un rischio che accetto volentieri, perché sono certa che anche il lettore più scettico scoprirà qualcosa, se avrà la pazienza di leggere. Senza contare che proprio il «rischio» è una delle dimensioni fondamentali di ogni sistema pensionistico e che le riforme – soprattutto quelle di carattere economico – dovrebbero essere interpretate come un modo efficace per migliorarne la copertura.
«Fate le riforme! Fate le riforme!»
Il concetto di riforma è spesso usato a sproposito, talvolta se ne abusa e soprattutto se ne limita indebitamente il significato al solo livello normativo. I cambiamenti derivanti dalle riforme, al contrario, tendono, come vedremo, a incidere in profondità sui comportamenti di individui e collettività.
Il tema delle riforme si intreccia, infatti, con il processo di trasformazione della società che le riforme possono intercettare e stimolare, attenuandone gli effetti indesiderati. L’esortazione: «Fate le riforme! Fate le riforme!», rivolta non solo all’Italia ma anche a molti altri paesi, è risuonata fin troppe volte negli ultimi decenni, ripetuta come un mantra scacciacrisi da commissari europei, banchieri centrali, presidenti e segretari generali di istituzioni internazionali (dall’OCSE al FMI), agenzie di rating e think tank. Il Governatore della BCE Mario Draghi, certamente tra i più sobri nei suoi richiami, esprime spesso questa sollecitazione nei suoi interventi, quasi fosse il necessario complemento alla politica monetaria della Banca Centrale. Per limitarsi a una sola citazione forte: «Il rischio di fare troppo è ormai nettamente inferiore a quello di fare troppo poco». Per l’opinione pubblica, questi «rimproveri», talvolta neppure troppo velati, rappresenta- no spesso un’intromissione di istituzioni estere nella vita del paese: le riforme proposte sono considerate medicine molto amare che però non è chiaro quali malattie dovrebbero curare.
Nella discussione politica, infine, il discorso sulle riforme si frammenta in ideologie e pregiudizi, concetti e preconcetti e sembra che nel contenitore «riforme» si possa mettere di tutto e di più, sicché anche piccoli cambiamenti normativi sono definiti riforme, magari «epocali».
Ma che cos’è davvero una riforma e che cosa vuol dire «fare una riforma»?
Un buon punto d’inizio per rispondere alla domanda è l’Enciclopedia Treccani, che definisce così il termine riforma: «Modificazione sostanziale, ma attuata con metodo non violento, di uno stato di cose, un’istituzione, un ordinamento». In particolare, il termine è stato applicato per indicare innovazioni o mutamenti profondi nella vita dello Stato o della Chiesa, dovuti (almeno per ciò che riguarda lo Stato) all’azione legittima e regolare dei poteri costituiti». I dizionari anglosassoni (per esempio, l’Oxford Dictionary) ne mettono spesso in luce anche una dimensione più «etica», secondo cui la riforma è «la rinuncia […] ad abitudini dannose oppure a uno stile di vita immorale o comunque biasimevole». Se si ritiene che questa definizione mal si addica a riforme economiche, è sufficiente pensare alla dubbia moralità di un debito pubblico eccessivo, e al danno causato alle generazioni giovani e future dall’accumulazione – impudente ma sempre ammantata di buoni principi – di promesse pubbliche, che oggi rappresenta il «nucleo duro» dei confusi programmi dei movimenti designati come «populisti». Nell’arena politica, in ogni caso, ci si riferisce normalmente alla prima definizione ma anche la seconda va tenuta in conto, soprattutto perché mette al centro della scena i comportamenti più che le norme.
Se quindi chiamiamo «riforma» un cambiamento profondo, intenzionalmente introdotto, nel modo di funzionare di un meccanismo giuridico, economico, sociale, istituzionale, allo scopo di adattarlo a esigenze di rinnova- mento, facciamo inevitabilmente riferimento al fatto che la riforma è un insieme complesso di mutamenti, intrecciati tra loro, che dispiega i suoi effetti nel tempo. In pratica, è impossibile che una riforma produca da subito risultati positivi per tutti, mentre nel medio-lungo periodo questi risultati devono essere visibili e apprezzati da una chiara maggioranza dei cittadini, se la riforma vuole risultare efficace e se la coesione sociale deve essere mantenuta. È ovvio, però, che quanto più una riforma si estende al di là dei dati e degli schemi tecnici, tanto più chiama in causa la politica, le ideologie, i comportamenti e persino il modo di essere degli individui.
Se si limita il campo di osservazione alle sole riforme economico-sociali, si può fare un passo ulteriore. Nei manuali di economia si illustrano solitamente le politiche economiche, da quelle monetarie e fiscali a quelle industriali e del lavoro. Se ne spiegano gli obiettivi, i vincoli e gli strumenti, più raramente i limiti. L’aspetto tecnico prevale su quello umano, e d’altronde l’analisi economica dà per scontata la fiducia non soltanto nella razionalità della sottostante visione economica, ma anche nella capacità del decisore politico di tradurre le prescrizioni tecniche degli economisti in scelte sensate e lungimiranti, idonee a modificare realtà complesse. Altrettanta fiducia è implicita, in quell’analisi, nella capacità dei cittadini di comprendere le nuove norme e di conformarvisi rapidamente.
Mentre quindi le politiche economiche sono parte integrante dell’armamentario dell’economista, le riforme occupano uno spazio sorprendentemente secondario nell’analisi economica. Non è difficile comprendere il perché: una riforma è qualcosa di assai più profondo di un «semplice» provvedimento di politica economica teso a far sì che i mercati funzionino in modo più efficiente. Ma è anche molto più di un «semplice» progresso nel funzionamento dell’amministrazione e della governance di un paese. Utilizzando la terminologia schumpeteriana, normalmente adottata per classificare le innovazioni tecnologiche, la qualifica di riforma spetterebbe così ai soli mutamenti «fondamentali», o strutturali, introdotti in un ordinamento giuridico e in una società, e non invece alle innovazioni «incrementali» che hanno lo scopo di adatta- re l’ordinamento esistente a qualche novità relativamente secondaria. Un esempio importante di riforma strutturale realizzata in Italia è il complesso di leggi che, a partire dall’Unità, modificarono l’assetto dell’istruzione pubblica – dalla legge Casati del 1859, che istituiva il sistema pubblico di istruzione per la nuova Italia, alla legge Coppino del 1877 che rendeva gratuita la scuola elementare, la portava a cinque anni, elevava l’obbligo scolastico a tre anni e introduceva sanzioni per chi lo disattendeva.
Implicando mutamenti fondamentali nella società (e quindi nei comportamenti di individui, imprese e istituzioni) volti a perseguire obiettivi socialmente rilevanti e sostenibili nel tempo, una riforma dev’essere un apparato organico, che «vive nella società» e del quale, in vario modo, la società si appropria, trasformandolo in una parte di sé ed essendone trasformata. A questo fine, deve essere condivisa, spiegata apertamente e compresa almeno nei suoi aspetti fondamentali così che non solo gli specialisti, ma la generalità dei cittadini riesca a coglierne, e possibilmente a condividerne, le ragioni di fondo. «Sono in discussione i comportamenti, non le norme; potremmo cambiare tutte le regole costituzionali e parlamentari, ma si tratterebbe di una illusione regolatoria perché le leggi sono inefficaci senza i “buoni costumi”, che impongono comportamenti misurati e lungimiranti», scriveva Luciano Violante in una lettera al Corriere della Sera nel novembre 2014.
Una riforma non consiste, infatti, soltanto di obblighi e divieti (che peraltro, quando non condivisi, possono essere aggirati, in vari modi) ma anche di stimoli e re- strizioni, incentivi e disincentivi, finalizzati a promuovere comportamenti ritenuti positivi e in linea con i principi di equità e di efficienza che dovrebbero guidare la riforma stessa. E mentre sull’equità le opinioni si dividono, ma il concetto è abbastanza chiaro, il termine efficienza suscita spesso fastidio nelle persone motivate da senso di giustizia e desiderio di promuovere il bene comune. Per qualcuno, efficienza è sinonimo di sfruttamento (e in diverse situazioni può essere effettivamente così), eppure inefficienza significa spreco di risorse e poiché queste sono sempre scarse (il principio della scarsità delle risorse è imprescindibile in economia), sprecarne poche o tante difficilmente gioca a favore dell’equità.
Nell’attuale trasformazione dell’assetto economico-sociale, demografico e tecnologico, le riforme, come detto in apertura, costituiscono la risposta tipica dei sistemi democratici ai cambiamenti strutturali e il tentativo di conciliare due necessità: quella di un consenso sufficientemente diffuso e quella di tenere in conto le esigenze sociali di quanti dalla riforma sono danneggiati, magari soltanto nel breve periodo e in modo non necessariamente quantificabile da un punto di vista meramente finanziario.
A differenza del sistema di mercato che – almeno nelle varianti «competitive» dei modelli teorici – si giustificherebbe per la sua capacità di portare vantaggi pressoché immediati a tutti, in democrazia le riforme normalmente penalizzano una parte della società e, per scoprire i caratteri generali dei loro vantaggi, occorre prendere in considerazione le prospettive future. Non esistono, o sono molto rare, le riforme «a costo zero». Oltre che patti sociali, perciò, le riforme possono essere considerate anche patti intertemporali e intergenerazionali: lo scambio di sacrifici oggi contro benefici futuri, talvolta lo scambio di sacrifici dei padri a beneficio dei figli. Questo concetto di scambio presente-futuro è molto vicino a quello di investimento sociale, sul quale torneremo più avanti e che va ben oltre l’interpretazione legalistica delle riforme, in base alla quale è sufficiente modificare alcune leggi perché si producano risultati portentosi.
*Estratto del volume Chi ha paura delle riforme. Illusioni, luoghi comuni e verità sulle pensioni di Elsa Fornero, Università Bocconi Editore (2018), 236 p., 15,90 euro