Un grande e dimenticato poeta del Novecento, Carlo Betocchi, a un certo punto della sua carriera dichiarò il desiderio, proprio lui che conosceva così a fondo i segreti dei ritmi e dei metri, di procedere «con i lunghi passi della prosa». Il bellissimo titolo del volume Einaudi in cui Patrizia Cavalli si è finalmente decisa di raccogliere le sue prose si intitola Con passi giapponesi, e il qualche modo ribadisce la metafora: scrivere in prosa è come camminare, procedendo in una certa direzione (quando è il fantasma di una storia a dettare i tempi e selezionare gli argomenti); o abbandonandosi a più momentanei e imprevedibili estri, come fa la gente a Roma dove, secondo Cavalli, «quasi nessuno ha davvero una meta».
Racconti, apologhi, memorie, meditazioni sulla vita e sul tempo che scorre, sul desiderio e i suoi tormenti. Come si addice a un libro che assembla pezzi di varia occasione e provenienza. Con passi giapponesi è un libro con molti centri, screziato, irregolare. Vi convivono il buffo e il tragico, il puntiglio dell’osservazione minuta, l’esercizio della memoria. Come sanno i tanti lettori della poesia di Cavalli, il suo è un temperamento lirico assoluto.
Ciò significa che il verso e il canto, per lei, costituiscono la realtà in senso assoluto, come se i sentimenti e i gesti della vita valessero qualcosa, acquistassero il loro reale peso specifico solo nella misura in cui una poesia ne rivela la forma, il senso. Così che la rima, che forse è il più artificioso degli espedienti, si trasforma spesso nel sigillo dell’autentico e del dicibile.
Com’è immaginabile le prose, pur facendoci riconoscere con piacere alcuni tratti tipici del mondo di Cavalli, ce la mostrano alle prese con un mezzo espressivo di portata più larga, nel senso che è capace di registrare anche quelle premesse psicologiche e affettive che l’ispirazione poetica invece brucia alla ricerca della formulazione definitiva e memorabile. La vera notizia (ha ragione Alfonso Berardinelli a segnalarlo nella quarta di copertina) è che anche in questo gioco, apparentemente secondario rispetto alla scrittura in versi, i risultati sono così eccellenti che si può dire sorto un nuovo astro nel cielo della prosa d’arte italiana.
In realtà, la notizia non era del tutto inedita, se è vero che Gianni Celati, col suo fiuto straordinario per il bizzarro e l’imprevisto, negli anni Novanta inserì il racconto della Cavalli che oggi dà il titolo al libro in un’antologia che fece epoca, Narratori delle riserve. Il titolo originale era Ritratto e proprio di questo si tratta: di un’impietosa caricatura femminile, di una radiografia psicologica condotta muovendosi con sapiente agilità tra il dentro e il fuori, ovvero tra i gesti esteriori e le loro profonde e inconfessate motivazioni. Sembrerebbe che non ci sia poi molto da riferire riguardo a questa signora mondana che ha imboccato il suo viale del tramonto senza perdere nessuno dei suoi vizi (primo fra tutti l’invidia) e dei suoi innumerevoli complessi (a partire dall’accento sardo). E invece, un po’ come Giorgio Manganelli riusciva a costruire i suoi indimenticabili romanzi-trattati partendo da una sola parola («amore», o magari «palude») dilatandola fino ai confini del possibile, Patrizia Cavalli con allegra ferocia isola e dilata i dettagli del suo modello per trasformarlo in una specie di bambola grottesca che sembra muoversi solo in virtù di una coazione a ripetere che si è completamente arrogata i diritti della ragione e della sensibilità.
Ma la deformazione grottesca non è l’unico accordo disponibile sulla tastiera di Cavalli. Notevolissimi sono per esempio i Ricordi di infanzia e di adolescenza, titolo un po’ ingannevole nella sua ottocentesca genericità, perché in realtà si tratta di un vivido e dolente ritratto della madre, sospeso in difficile equilibrio tra la pietà e il rancore: quello che si dice un vero pezzo da antologia.
Di fronte ad alcune scene, ad alcuni dettagli di questo libro viene da chiedersi come Patrizia Cavalli avrebbe trattato in versi lo stesso argomento. La poetessa sembra caricarsi, nella sua prosa, di pesi maggiori di quelli che sembra sopportare nelle sue famose strofette. Eppure, come ci suggerisce a un certo punto, a volte è proprio nell’«ingombro» che si nasconde «una più profonda e definitiva leggerezza».
*Corriere della Sera, 08 giugno 2019