Daniele Mencarelli è prima di tutto un poeta. Ed è uno di quegli autori capaci di far librare temi pesanti come il piombo con la forza di parole semplici, delicate, e di scavare nel profondo delle cose senza un briciolo di retorica.
“Tutto chiede salvezza” è la ricostruzione di sette giorni di TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) di cui l’autore si è trovato a fare esperienza a vent’anni, nel 1994. Memoir, romanzo autobiografico, si dice in questi casi. Ma Daniele fa molto di più, raggiunge la vetta più alta di questo filone: raccontare sé stessi in funzione degli altri, mettersi uno specchio davanti solo per restituire il riflesso del mondo. Tanto più se si tratta di un mondo di invisibili che non siamo abituati a guardare perché, tendenzialmente, fuori dalla nostra portata visiva. Ed è questa la funzione più nobile della scrittura autobiografica. Forse, l’unica che conti davvero.
Ospedali e poesia fanno parte del tuo vissuto, sono entrati in entrambi i tuoi romanzi e anche in alcune poesie. L’accostamento dei due mondi suscita qualcosa di potente. Da dove proviene la forza di questo incontro?
Alcuni luoghi, molto più di altri, risvegliano la consapevolezza del limite, della precarietà. Ci sono luoghi in cui ci sentiamo protetti, blindati da qualsiasi imprevisto. E altri che ci ricordano di quale natura siamo fatti. È quella natura che interroga da sempre la poesia. Io ho poi sovrapposto il dato poetico-letterario alla “fortuna” di aver avuto certe esperienze. La poesia, lo diceva Pasolini, nasce sempre dagli ossimori. E in certi luoghi gli ossimori sono veramente pesanti. C’è poi un altro dato. Chi scrive, quando entra in relazione con la sofferenza di altri esseri umani, secondo me ha il dovere raccontarlo. In narrativa sto tornando dentro tanti luoghi su cui avevo già scritto. Guarda Ungaretti in guerra, Rebora, o tutta la poesia che nasce dai luoghi di lavoro: Sereni, Fortini. C’è questa consanguineità, e secondo me vale, conta.
Come ti sei mosso per raccontare un contesto così delicato come un ospedale psichiatrico? Sulla lingua mi pare tu abbia lavorato per sottrazione, lasciando che la forma desse ancor più sostanza al contenuto…
Per me il lirismo è sempre un atto di spoliazione, di profondo ritorno alla semplicità. Quelle che racconto sono figure già paradigmatiche, non hanno bisogno di retorica, dell’elemento posticcio. Devi sempre metterti a disposizione di quello che loro hanno già compiutamente dentro sé stessi. Per me la scrittura parte sempre dallo sguardo, dall’osservazione, in narrativa come nella poesia è una modalità di accostamento a quel dettaglio, a quell’elemento rivelatore che riesce, molto più di pagine e pagine di descrizione, a illuminare l’intero personaggio.
La mancanza di empatia e il distacco disinteressato sono aspetti evidenti del rapporto che i personaggi-medici hanno con i pazienti, con Daniele in primis. La difficoltà di accogliere il dolore degli altri è qualcosa con cui siamo spesso a contatto…
Sì, tutto parte da questo riconoscimento reciproco. Il libro racconta di due medici che non scommettono più sull’empatia, sulla scoperta dell’altro in termini di arricchimento personale. L’altro viene in qualche modo retrocesso a un elemento da curare e basta, la scommessa diventa empirica, votata solo alla scelta di questa o quella molecola. Conta anche questo quando si parla di malattia, ma senza empatia chi sta dall’altra parte non sente di essere riconosciuto, accolto, e questo è un dramma. Poi arriva l’elemento, per me maestro, che è la realtà, l’imprevisto. E quei due tirano fuori qualcosa che non sapevano di possedere, o non possedere.
Questo aspetto è in antitesi con la natura di Daniele: “Quale compito devo svolgere per non sentire più il dolore degli altri?” si chiede. E in effetti finisce in TSO quasi per un eccesso di empatia…
Sono due mondi a confronto. Tra i pazienti scatta un’idea di accoglienza che diventa cura, in maniera istintiva, e che medica senza bisogno di medicinali. Quella di Daniele è poi la grande maledizione, il rovescio della medaglia, il talento di un ragazzo che vive una forma di compassione degli altri assolutamente incontrollabile, spesso dannosa per sé stesso. Può essere una maledizione o un dono, e come tutti i doni e i talenti chiede un investimento in termini di lavoro, di disponibilità, di sofferenza. Questo secondo me è un tema fondamentale della natura umana, la grande sfida: quello che siamo veramente, la disponibilità a lavorarci sopra e farlo diventare strumento di crescita, di scoperta. Io penso che l’unica vera sfida che conti sia questa.
Daniele compie proprio un percorso di trasformazione e consapevolezza in cui paure e diffidenze iniziali verso gli altri pazienti si trasformano in condivisione, intrecci di umanità…
Inizialmente è terrorizzato dagli altri pazienti. Poi però scopre un’empatia molto simile, si ritrova di fronte persone che vivono con la stessa ferocia, involontariamente, i temi che lui vive segretamente. Tutti questi elementi lo portano per la prima volta ad affrontare la sua natura, a capire che nel mondo – e questo forse è l’elemento centrale del libro – esiste una possibilità di dialogo che non parta da un tradimento di noi stessi ma da un’accoglienza totale. Lo farà con persone che all’inizio della settimana reputa di un’altra umanità rispetto alla sua. Questo è il centro di tutto: esiste un’umanità che giudichi come diversa, per poi accorgerti che lì dentro passa la tua stessa identica essenza.
È interessante che si senta dire “Basta trovare il farmaco giusto”, ma in quella trasformazione i farmaci non hanno praticamente alcun ruolo…
Certo, ma faccio comunque sempre questa premessa: la farmacologia serve, la malattia mentale esiste, negarlo sarebbe negare tutto quello che ho visto e vissuto. C’è un tema che sta più a fondo però. Un certo tipo di predisposizione, di attenzione all’altro e alla propria esperienza umana viene visto spesso in maniera negativa. “Osservare i limiti della propria esistenza”, come faccio dire a Mario [uno dei pazienti, ndr] non è di per sé un sintomo psichiatrico, ma lo slancio verso ciò che è ignoto, che ancora non ti appartiene, che ci ha portati dove siamo. Poi la modalità con cui si vivono questi interrogativi può sfociare nella nevrosi, nella depressione, nella psicosi, nella malattia mentale vera e propria. Ragionare sulla morte, sul dolore, sull’amore, è diventato troppo pesante, sono temi diventati tabù, ma non possono essere retrocessi a sintomo da curare col farmaco giusto.
A proposito di Mario, Daniele con lui stringe forse il rapporto più profondo, è il più anziano, attraverso di lui si riflette anche sull’approccio scientifico alla malattia mentale. Mario è un insegnante elementare, così come lo era Franco Mastrogiovanni, l’uomo ricoverato per TSO nel 2009 e morto legato e abbandonato a un letto. È stato un caso?
Mi metti i brividi perché non lo sapevo. C’è una parte di ricostruzione, Mario a un certo punto diventa in qualche maniera quasi l’alter-ego, questo maestro gentile. Però io sulla descrizione dei personaggi, sull’elemento introduttivo non ho barato, i miei cinque compagni di stanza erano effettivamente per come li ho raccontati. Mario era veramente un maestro messo a congedo. E so che una delle categorie nel mondo che da sempre sconta di più la malattia mentale è proprio la categoria dei maestri, dei professori, di chi insegna. C’è una statistica che li vede molto più esposti a questo rischio.
I reparti che si occupano di malattia mentale sono luoghi ancora separati dalla società, mondi a parte che chiedono salvezza, come lo è il carcere del resto. Quale contributo può dare la letteratura per colmare questo divario, questa separazione?
Reparti di psichiatria e carceri sono gironi infernali in cui le categorie e le gerarchie del mondo saltano. Chi sta in un girone infernale, che sia custode o peccatore, sta comunque in un girone infernale, con il rischio che venga meno quel valore di empatia e umanità che ci fa uomini. Secondo me la letteratura deve riscoprire un senso di dovere rispetto a tutti quelli che non possono scrivere. Ed è il motivo per cui io ho sempre sentito il dovere di scrivere di certe esperienze. Chi si intesta un determinato episodio della sua vita non lo fa solo per sé, anzi, lo fa soprattutto per tutti quelli che stavano con lui. Secondo me è questa la funzione primaria della letteratura che va riscoperta. L’idea della letteratura come intrattenimento non è mia, non lo è mai stata. La poesia per me è stata un sostegno spesso decisivo rispetto a passaggi che altrimenti, probabilmente, non avrei superato. Per me la letteratura è una questione seria che parla di umanità, che parla di certi luoghi che devono essere sempre meno gironi infernali.
*Da l’Eco di Bergamo, 5 Giugno 2020