Fratelli d’Italia sì; ma fratelli-coltelli. Per la prima volta nei suoi 72 anni di vita, ha trovato due Paesi contrapposti la festa della Repubblica: caduta all’indomani dell’abborracciata e rissosa nascita del governo, a tre mesi di distanza dalle traumatiche elezioni di marzo.
Ma questa spaccatura non è tra responsabili e populisti, sostenitori e denigratori dell’Europa, fautori del cambiamento ed epigoni della restaurazione, come la inquadrano i più. No: la vera linea di faglia uscita dalle urne corre tra élites e popolo. Tra una minoranza sempre più sorda e coriacea che ha fin qui detenuto le leve del controllo, e una maggioranza sempre più eterogenea e rancorosa, convinta che sia l’ora di strappargliele di mano.
È come se si fosse creato un inedito bipolarismo tra testa e pancia del Paese; ciascuna delle due parti ignorando che, come per l’individuo, pure il corpo della nazione ha bisogno di entrambe, e di entrambe deve tener conto. La responsabilità principale di quanto sta accadendo è chiaramente della prima, cioè la cerchia delle élites: categoria in cui rientrano attori di mondi diversi, dalla politica tradizionale ai poteri economici, dalle forme classiche della rappresentanza (sindacato incluso) ai mass media artefici di una narrazione sfascista e all’ingrosso.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: prima e dopo il voto, il coro di “chi conta” è stato pressoché unanime nell’esortare il popolo a non seguire i nuovi profeti del cambiamento; nelle urne il popolo se ne è fatto beffe suonando tutt’altro spartito. E per una singolare ma tutt’altro che casuale coincidenza, la festa della Repubblica ha tenuto a battesimo la nascita di un governo che da Roma a Bruxelles le élites aborrivano ed esorcizzavano.
Il punto è che un simile bipolarismo fa male non alla testa o alla pancia, ma all’Italia. Il cui vero, tossico, esiziale problema non sta tanto nelle tasse inique, la giustizia lenta, le infrastrutture carenti, gli sbarchi dei clandestini, la sicurezza a rischio, insomma i temi disinvoltamente cavalcati in campagna elettorale. No: è la compresenza di due micidiali deficit, quello dei conti pubblici e quello dell’anagrafe. Il primo è sotto gli occhi di tutti: nessuna vera riforma si potrà mai fare se non si risana il vertiginoso debito pubblico. Del secondo pochi si rendono conto, malgrado sia se possibile ancora peggiore: questo è un Paese che sta invecchiando in fretta e male; e come accade per le persone, senza rimedi efficaci è destinato a finire in casa di riposo, vegetando in un malinconico declino.
È bene chiarire che nessuno, ma proprio nessuno, ha in mano gli strumenti per colmare questi due deficit in tempi brevi: tanto meno un governo i cui protagonisti hanno già rottamato le loro mirabolanti promesse, si sono ripetutamente auto-sconfessati, e hanno dato vita ad una precaria convivenza a orologeria. Oggi hanno dalla loro la maggioranza degli italiani, certo. Ma il consenso delle urne è diventato volatile & volubile, e non da oggi. Nel 2013, il 39 per cento degli elettori avevano cambiato voto rispetto alla volta precedente; stavolta sono stati il 28. Non di sole promesse vive la politica, né di un algoritmo dello sfascio: vale ora più che mai la ricetta del “sangue, sudore e lacrime” proposta nel 1940 da Winston Churchill, di fronte a una guerra devastante. Lo è anche quella attuale, in un’Italia stretta nella morsa tra una micidiale crisi planetaria e un esiziale ritardo dovuto a chi per decenni ha ingessato il Paese, in politica ma pure in economia. Perciò è fondamentale una riconciliazione tra élites e popolo: accantonando urla e scomuniche, ripristinando con pazienza il dialogo e la ragione.Altrimenti, non sarà solo una guerra persa, ma una catastrofe. Caporetto, in fin dei conti, appartiene al made-in-Italy.