Si avvicina il congresso della Cgil e in qualche maniera si misura quanto si sia allargato il fossato che divide il sindacato dalla società. Mai come questa volta, infatti, l’assise del maggiore sindacato italiano e di una delle più larghe organizzazioni di rappresentanza in Europa ha generato così scarso interesse. Ci si domanda chi prevarrà tra Vincenzo Colla e Maurizio Landini e quindi chi succederà a Susanna Camusso, ma la curiosità (politica) si ferma tutta lì. E invece se volessimo anche solo limitarci al delicato rapporto tra populismo e rappresentanza, l’evoluzione degli orientamenti della Cgil costituisce un test che interessa tutti, è una tessera — e non delle minori — di quel complicato puzzle che rimanda allo stato di salute della democrazia italiana. I regolamenti interni alla Cgil hanno probabilmente reso ancor più difficile la trasmissione di valore all’esterno perché resta difficile da spiegare come i due candidati si contrappongano con tutta evidenza sui programmi ma abbiano sottoscritto lo stesso documento congressuale (votato peraltro con percentuali bulgare e quindi ipocrite). Resta comunque sul tappeto la domanda su cosa rappresenti la Cgil (e per estensione tutto il sindacato) nella società italiana del 2019.
Nel recente passato ci sono stati momenti storici, forse altrettanto drammatici rispetto all’attuale, in cui il sindacato ha saputo parlare con chiarezza alla società, ha dato un contributo valido al di là della mera platea dei suoi iscritti. Prendiamo l’epoca di Luciano Lama e il compito che la Cgil accettò di caricare su di sé spendendo la credibilità accumulata nei luoghi di lavoro per stabilizzare il Paese alle prese con la difficile uscita dagli anni 70, per evitare la cesura tra garantiti e non garantiti e per individuare con la svolta dell’Eur la necessità di una politica comune contro l’inflazione. Ma anche se andiamo ai tempi di Bruno Trentin il sindacato fece un’operazione capace di parlare oltre i propri confini. Sostenne che l’emancipazione del lavoro dovesse partire dai luoghi della produzione e chiamò l’intera società a misurarsi con «le trasformazioni del capitalismo», a studiare le multinazionali. Legò prestazione dell’operaio, competenze e sviluppo. Fece i conti con la modernità del tempo senza demonizzarla ma cercando di costruire una nuova cultura del lavoro.
Non è questa certo la sede per discutere di storiografia sindacale, ma lo scarso interesse che si riscontra nei confronti del congresso Cgil rimanda a quest’interruzione di dialogo, a questo deficit di proposta. È come se in questi lunghi anni della Grande Crisi prima e poi dell’affermarsi del populismo, la forza e l’intelligenza sindacale fossero rimaste congelate, come se la Cgil avesse scelto l’identità — per dirla con il politologo americano Mark Lilla — contrapponendola all’efficacia. Tanta primogenitura, poche lenticchie.