Ugo Biggeri è un banchiere. Non ha una piscina ma una fontana a energia solare. L’ha progettata lui, però non ha mai funzionato: «…non mi fa onore, ho una laurea in fisica e pure un dottorato in ingegneria elettronica»… dice. Ha una cavalla che ha regalato tempo fa a sua moglie Miriam: la chiama e lei, la cavalla Nelke, serenamente se ne frega e continua a brucare assieme all’asina. Rispondono al richiamo invece le cinque caprette e il cane, le galline razzolano nel pollaio, all’appello mancano solo i tre maiali. «Eh si saranno persi nel bosco…» butta lì con l’espressione del banchiere che sta per rifilarti un derivato bacato. In casa Biggeri non sono vegetariani. La casa si chiama Aia Santa, ed è una roba complicata, una sorta di co-housing: il podere si trova a Vicchio nel Mugello, dove nacque il beato Giovanni da Vespignano, da qui il nome. Attualmente ci vivono la famiglia Biggeri, con tre figli e una in affido, un altro nucleo familiare, una donna somala, tre richiedenti asilo, una ragazza del Congo rimasta sola in Italia e che studia all’università, un amico algerino; un edificio è destinato ai campi di lavoro, ci sono i turni per far da mangiare e per pulire. Se è vero che per tutto il corso della vita si segue in realtà sempre lo stesso fiume sotterraneo, Biggeri forse ne è la prova. È presidente di Banca Etica quasi alla fine del terzo mandato consecutivo, è anche presidente di Etica Sgr, la società del gruppo che gestisce il risparmio.
Il suo stile di vita è sempre stato così o è venuto dopo con la scelta della finanza etica?
«È sempre stato una fissa della mia famiglia. Ero studente quando cominciai come volontario a Mani Tese, il tema era quello della fame nel mondo, della pessima distribuzione delle risorse tra nord e sud del pianeta e della battaglia per i consumi responsabili. Poi è arrivata la vita, mi sono sposato a 24 anni, a 27 i figli».
È stata dura?
«Per nulla. La gestione familiare può essere faticosa per certe cose, così ci è venuta l’idea di andare a vivere insieme ad altre famiglie, a Le Sieci. Prima ci siamo ispirati al Centro nuovo modello di sviluppo di Francuccio Gesualdi, allievo di don Milani a Barbiana (che è a pochi chilometri da qui, ndr). Poi, abbiamo continuato come ci veniva. Abbiamo avuto esperienze con persone con disagio mentale, il servizio di volontariato europeo, l’attenzione all’ecologia, e abbiamo praticamente inventato in casa nostra Terra Futura, la manifestazione sulle buone pratiche per la sostenibilità».
Quanto di più lontano dal mondo della finanza…
«Per sette anni sono stato precario all’università. Diciamo che a trent’anni non ci pensi che dirigerai una banca…».
E invece?
«…e invece Mani Tese è stata tra i fondatori di Banca Etica, e fin dall’inizio ho seguito il suo progetto: la banca nasce nel 1999, mi appassiono, entro nel cda, nel 2010 sono presidente».
Cosa vuol dire fare finanza etica?
«Vuol dire rispondere a una domanda dei consumatori, che è solo apparentemente facile: dove sono finiti i miei soldi? Siamo gli unici in Italia che mettono on line tutti i finanziamenti alle persone giuridiche. E poi è fare attenzione all’ambiente, agli stili di vita, al sociale. Il 50% dei finanziamenti vanno al no-profit, il 20% al profit responsabile. Abbiamo i tassi di sofferenza molto più bassi di altre banche: parlare con chi ti chiede un prestito per noi è un lavoro. Abbiamo i valutatori sociali volontari che fanno le analisi dei progetti, e se finanziamo la creazione di un circolo sociale in un bene confiscato alla mafia sappiamo che lì c’è gente che si autotassa, e che lo porterà fino in fondo».
Arrivano anche i clienti in fuga dalle altre banche?
«Non tanti. Da noi sanno che sul denaro merita ragionarci sopra, che fare domande sui soldi è fare domande sulla vita. Come diceva don Milani, ogni parola che non studiate oggi è un calcio in culo domani».
E lei che rapporto ha con i suoi soldi?
«Sono stato un sacco di anni senza, allo stile di vita sobrio non c’era alternativa. Ora ce li ho, non mi fanno schifo e continuo con lo stesso stile di prima. La gestione di una famiglia per noi non è stata una fatica economica, non ci siamo dovuti porre quel problema lì».
Anche l’Aia Santa è sobria…
«Questo era l’unico posto dove ristrutturare non costasse un’ira di Dio. Tra l’altro non è nostro, in una vita comunitaria è meglio evitare la proprietà privata: se vuoi, vai via, ma il resto rimane… L’Aia Santa è dell’associazione Le Case, che fa attività di accoglienza».
C’è anche un grande orto. Siete autosufficienti?
«La carne in genere non la compriamo, e comunque stiamo attenti a non prenderla da allevamenti intensivi. Le verdure d’inverno invece sì, lavoriamo tutti fuori. La pommarola la facciamo noi ma se finisce si compra, il pane invece quello lo facciamo sempre con la farina del nostro grano».
Gli oggetti a cui tiene di più?
«Il trapano, la motozappa, gli attrezzi… In questa casa abbiamo fatto tutto da noi. Ogni cosa, un muro, una vetrata, mi ricorda episodi e persone».
Quando frequenta “l’altra finanza” come è accolto?
«L’abito fa il monaco. Mi vesto per benino con la cravatta, soprattutto a Milano, che già sei la banca alternativa, io poi ho la barba e i riccioli… Però siamo passati gradualmente dal sorrisino “bellini quelli di Banca Etica”, a un’altra considerazione. Diverse cose le abbiamo azzeccate, siamo stati i primi in Italia a fare i fondi etici che poi hanno fatto tutti, e abbiamo un buon rapporto con la vigilanza della Banca d’Italia».
Siete anche quelli del microcredito, del crowdfunding, del baratto…
«Facciamo le cose che fanno tutte le banche: mutui per la prima casa, finanziamenti per lavoro e digitale. Ma oltre a questo con i nostri fondi di investimento, per scelta dei clienti, l’uno per mille va a finanziare progetti in microcredito. Il crowdfunding genera molta partecipazione sociale: se presenti un progettino, la banca garantisce 3 mila euro se arrivi in fondo, sei più motivato. E anche il baratto è un tentativo di valorizzare la rete dei soci, che sono una community. Nasce come ipotesi di scambio: hai un casa da affittare, offri una passeggiata nei monti… La cosa preoccupante è che oggi vedo poche piattaforme di social network che rischiano di concentrare tutte queste potenzialità. Per Marx il problema era il controllo dei mezzi di produzione, oggi è quello del controllo delle piattaforme di distribuzione».
Per molti risparmiatori invece il vero problema è non capirci quasi nulla…
«È vero che c’è bisogno di educazione finanziaria ma questa cosa un po’ mi fa innervosire. Sembra che si scarichi addosso alle persone la furbizia delle banche. Tocca al fornaio essere in regola con la certificazione sanitaria, non a chi compra il pane controllare. Sembra che se a un risparmiatore è stato venduto qualcosa di poco buono, sia colpa sua».
Quindi il risparmiatore è esente da colpe?
«Ci vuole un po’ meno stoltezza e meno avidità. Se hai 100 mila euro e li metti tutti in uno stesso fondo… Anche la mi’ nonna diceva di non mettere tutte le uova nello stesso paniere. Si deve differenziare».
Mirare al rendimento è una cosa poco etica?
«Non bisogna farsi abbagliare da questa cosa dei rendimenti. Ad aprile abbiamo emesso una obbligazione che finanzia il microcredito in Africa: 15 milioni di euro, sette anni, 1,20 il rendimento lordo. Era lo 0,20 meno dell’equivalente del buono postale del tesoro. Una boiata come investimento. In una settimana abbiamo venduto tutto. Perché chi ha delle risorse dice: un pochino mi rende, faccio una cosa utile per l’Africa, e metto in moto un meccanismo di economia positiva. C’è gente che li fa, questi ragionamenti».
*La Repubblica, 15 giugno 2018