La nazione più popolosa del mondo si ferma e si chiude, è una paralisi progressiva programmata dall’alto per fermare il contagio. Il mondo intero s’interroga sul prezzo che pagherà per questo improvviso auto-isolamento della Cina. Dopo i ritardi iniziali la risposta di Xi Jinping al coronavirus è drastica, include un blocco del turismo con importanti ricadute internazionali. Anche altri settori dell’economia devono attrezzarsi per una “assenza cinese” che nessuno aveva previsto, neppure nelle fasi più dure della guerra dei dazi. Niente dietrologie economiche, tutte le misure d’emergenza sono doverose, inevitabili, dettate da un bilancio delle vittime che sale di ora in ora, mentre il contagio è già mondiale. Xi ne trae le conseguenze: in pieno Capodanno lunare, la stagione più festiva nella tradizione cinese, il governo sospende d’autorità i tour organizzati, sia in patria che destinati all’estero. Scatta lo stop anche per la vendita di “pacchetti” combinati volo più hotel, destinazioni estere incluse. Questi divieti draconiani non si limitano più alla sola provincia dello Hubei – 35 milioni, focolaio originario del coronavirus – bensì colpiscono l’intero territorio nazionale, nonché i viaggi dei cinesi all’estero. Per decisione centrale – autoritaria ma necessaria – s’immobilizza il più grande “serbatoio” del turismo mondiale. In Cina stessa vengono chiusi al pubblico i più celebri siti storici o attrazioni turistiche: Grande Muraglia, Città Proibita, Disneyland. Mentre Stati Uniti e Francia evacuano i loro cittadini dall’epicentro di Wuhan, cominciano anche le chiusure delle multinazionali: Starbucks cala le serrande di tutti i suoi bar, altre aziende seguiranno l’esempio per tutelare i dipendenti. Ogni luogo pubblico cade sotto il sospetto di essere un bacino di contagio. I consumi sono destinati a scendere di conseguenza. Le Borse mondiali hanno già registrato cali generalizzati prima del weekend. Un indicatore chiave è il prezzo del petrolio, in calo del 2,5%: accade quando si teme una recessione o comunque una frenata nella crescita, con il conseguente rallentamento nel consumo di energia.
Se la preoccupazione prioritaria riguarda le vite umane, e la mappa del contagio che ormai è su quattro continenti, per quanto riguarda l’impatto economico la cinghia di trasmissione è proprio il turismo. I cinesi sono balzati negli ultimi anni al primo posto nelle classifiche mondiali dei viaggiatori. La loro assenza la risentiranno tutti. Un settore particolarmente esposto è il lusso, made in Italy o made in France: 35% delle sue vendite dipendono dai consumatori cinesi, spesso viaggiatori che comprano durante i soggiorni all’estero. Tra i titoli più colpiti da ribassi ci sono quelli delle compagnie aeree, incastrate in un vortice di misure di sicurezza nuove, aeroporti intasati da controlli sanitari, cancellazioni di voli. Il Dipartimento di Stato Usa per adesso ha messo solo Wuhan e lo Hubei nella lista rossa delle zone da non visitare, ma i cittadini americani già lo superano per ansia di prevenzione, e molti stanno rin unciando a viaggiare in tutta la Cina. L’America del resto ha la paura in casa: da New York a Los Angeles, da San Francisco a Seattle, ospita alcune delle Chinatown più grandi del mondo. Nella diaspora cinese si mescolano gare di solidarietà (molti spediscono maschere per la bocca a Wuhan) e i timori che appaiano qui nuovi casi di contagio. La tradizionale animazione delle Chinatown, coi mercatini e i ristoranti affollati, rischia di lasciare il posto a un paesaggio spettrale. Tutti sanno che per il Capodanno lunare potrebbero essere appena sbarcati a New York o in California dei cinesi venuti da Wuhan; tutti i luoghi pubblici in tal caso diventano potenziali bacini di contagio. È l’altro shock psicologico da coronavirus, che rischia di deprimere i consumi.
I paragoni automatici vanno all’altra grande epidemia recente che paralizzò la Cina, la Sars del 2003. Anche allora al ritardo iniziale seguì una risposta energica, la Cina fu costretta a isolarsi dal resto del mondo, l’attività economica ebbe una frenata pesante: l’unica recessione cinese nella storia recente. Ma quella era un’economia molto più piccola, la quarta del mondo per Pil, mentre oggi è al primo posto a parità con gli Stati Uniti. Inoltre la crescita cinese oggi dipende molto più di allora dai consumi (oggi 60% del Pil) – com’è normale per una nazione più benestante – e proprio le spese delle famiglie sono le prime ad essere tagliate per effetto delle restrizioni al turismo, con i ristoranti e luoghi pubblici che si svuotano. La stessa vulnerabilità vale per il resto del mondo, se i casi di contagio e i decessi dovessero aumentare: siamo già ad una mappa che spazia dagli Stati Uniti alla Francia all’Australia, più la quasi totalità delle nazioni asiatiche con Giappone e Thailandia, Singapore, Vietnam e Corea.