Basta con i missili, almeno per ora. Donald Trump assicura che non risponderà con le armi all’attacco iraniano lanciato nella notte del 7 gennaio. Innanzitutto perché i razzi contro «non hanno causato vittime né tra gli americani, né tra gli iracheni nelle basi di Ain Al Asad e di Erbil». Inoltre, osserva il presidente, «l’Iran si sta frenando: e questa è una cosa buona per le parti in causa e per tutto il mondo». L’annuncio della tregua militare è stata accolto con sollievo dalla comunità internazionale e con un cospicuo rialzo a Wall Street. Oggettivamente è il massimo risultato raggiungibile in una fase che, comunque, resta pericolosamente confusa.
Trump, in diretta tv, ha alternato minacce e aperture, al limite della contraddizione logica. Ha cominciato così, prima ancora di dire «buongiorno»: «Fino a quando sarò presidente degli Stati Uniti, all’Iran non sarà consentito di avere la bomba nucleare». E ha chiuso in questo modo: «Mi rivolgo al popolo e ai leader dell’Iran. Vogliamo che possiate avere un grande futuro, quello che vi meritate, un futuro di prosperità nel vostro Paese e di armonia con le altre nazioni. Gli Stati Uniti sono pronti alla pace».
In mezzo il presidente ha illustrato una strategia basata sostanzialmente su tre punti. Primo: la ritorsione sarà economica, per mantenere alta la pressione su Teheran: «Imporremo nuove e massicce sanzioni economiche». Secondo: occorre coinvolgere le altre potenze, finora semplicemente ignorate. In particolare le quattro che assieme agli Usa hanno firmato nel 2015 l’accordo sull’atomica con il Paese degli ayatollah. «Germania, Francia, Russia e Cina devono rendersi conto che quell’intesa è pessima e va rinegoziata. Siamo pronti a lavorare con loro». Terzo: esplicita offerta di dialogo con «i leader» iraniani. Secondo la Cnn, Washington e Teheran si sarebbero scambiati segnali attraverso il governo svizzero, l’unico canale di comunicazione rimasto aperto.
La tensione in Medio Oriente, dunque, scende di una tacca e forse si può cominciare a ragionare in termini politici. L’obiettivo dell’amministrazione, ora, è cercare di spezzare l’isolamento provocato dall’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, il 2 gennaio scorso. Ecco perché il presidente Usa fa sapere: «Chiederò alla Nato di essere maggiormente coinvolta nelle dinamiche del Medio Oriente». Non aggiunge, però, altri dettagli. Nel vertice del 7 gennaio gli altri 28 Paesi dell’Alleanza Atlantica avevano preso nettamente le distanze «dall’eliminazione» del generale. Trump ieri non ha concesso nulla: «Sotto la mia direzione, abbiamo fermato il terrorista numero uno del mondo che era personalmente responsabile di alcune delle peggiori atrocità immaginabili. Ha addestrato le milizie del terrorismo, inclusi gli Hezbollah, ha alimentato guerre civili nella regione…negli ultimi giorni stava pianificando nuovi attacchi contro obiettivi americani».
La difficoltà politica, però, non è solo legata all’interpretazione del ruolo di Soleimani. Vero, gli alleati della Nato concordano sulla necessità che l’Iran non abbia la capacità di costruirsi l’atomica in casa. Tuttavia, specie gli europei, pensano sia controproducente andare allo scontro diretto con Teheran o strangolarne l’economia con le sanzioni. Sono le differenze di fondo, ormai strutturali, tra l’approccio Ue e quello degli Usa. Il discorso di Trump non indica come superarle e quindi, una volta posata la polvere sollevata dai bombardamenti, si dovrà ripartire da zero.
Per il resto il leader della Casa Bianca si è rivolto all’opinione pubblica interna, riproponendo il solito repertorio elettorale. Ha criticato pesantemente il suo predecessore, Barack Obama, per aver aver concluso «il folle accordo nucleare», regalando all’Iran «150 miliardi di dollari, senza contare 1,8 miliardi cash»: «invece di dirci “grazie”, (gli iraniani, ndr) cantano “morte all’America” nelle strade». Al di là della propaganda, resta da capire se Trump sarà in grado di ricompattare il Congresso, come di solito accade nelle grandi crisi internazionali. Ieri il Segretario di Stato Mike Pompeo, quello alla Difesa, Mark Esper, la direttrice della Cia, Gina Haspel e il capo di Stato maggiore, Mark Milley, hanno spiegato le ragioni dell’«operazione Soleimani» prima ai deputati e poi i senatori dei due partiti.