I nodi per la posizione dell’Italia a Bruxelles verranno al pettine entro il 20 giugno. Si capirà per allora se il Paese è destinato a entrare nella gabbia di una procedura europea sul debito potenzialmente lunga e stringente. E qualora a dispiegarsi fosse questo scenario, non quello di un compromesso, sarà chiaro chi avrà preso la decisione: gli altri governi europei, non la Commissione.
La risposta del governo alla lettera di Bruxelles partirà oggi, come richiesto dai commissari Ue Pierre Moscovici e Valdis Dombrovskis. Ieri dal Festival dell’Economia di Trento Giovanni Tria, il ministro dell’Economia, ha cercato di disinnescare le polemiche sui termini stretti dati all’Italia per rispondere alla contestazione di aver violato le regole sul deficit e sul debito per il 2018. «La lettera era attesa da tempo — ha detto il ministro —. La Commissione ha deciso di mandarla dopo le elezioni per non turbare il voto». Difficile però che la risposta da Roma, in preparazione prima ancora che la missiva da Bruxelles arrivasse, cambi l’orientamento dell’esecutivo di Jean-Claude Juncker. Il rapporto sul debito che la Commissione approverà il 5 giugno dovrebbe ripetere le parole di quello sulla Legge di bilancio del 21 novembre: una procedura «è giustificata». Al centro della contestazione c’è uno 0,4% di troppo, rispetto agli impegni, nella proporzione fra il deficit «strutturale» (lo zoccolo di fondo dei conti) e il Prodotto lordo nel 2018. Ma nella sostanza Dombrovskis e Moscovici non sono convinti della strategia del Paese — il debito resta su un piano inclinato — quindi vogliono tirare una riga una volta per tutte.
Da mercoledì prossimo i governi dell’Unione europea hanno due settimane per dare il segnale decisivo. Tocca infatti al Comitato economico e finanziario della Ue (Efc) decidere se mandare avanti la procedura per il varo da parte dei ministri e quel comitato è composto dagli sherpa finanziari di tutti i Paesi. Fra novembre e dicembre scorso dettero alla Commissione Ue il mandato a negoziare ancora con l’Italia, perché il governo si era ammorbidito e nel frattempo la Francia aveva messo in cantiere un aumento del deficit di fronte all’emergenza dei gilet gialli.
Non è affatto detto che l’Efc prenda la stessa strada questa volta. Da Parigi, a Berlino, all’Aia, a Madrid, molti governi escono dal voto europeo avendo battuto o contenuto i sovranisti nei loro Paesi. Ma quelle forze euroscettiche restano una minaccia per chi è al potere in Europa occidentale e sono alleate dirette della Lega di Matteo Salvini. Ciascun governante europeo teme che chiudere un occhio sull’Italia oggi sia un segnale di debolezza di fronte ai populisti di casa propria. Pochi pensano, per ora, che Salvini stesso userebbe una procedura di Bruxelles contro il suo governo per fare una potente campagna anti-europea in vista delle elezioni politiche che si profilano in Italia.
Tria ha comunque fiducia di poter opporre degli argomenti, a Bruxelles: «C’è stato un forte rallentamento dell’economia un po’ in tutta Europa, non solo da noi — ha ricordato ieri il ministro —. L’anno scorso non abbiamo varato nessun provvedimento di spesa e il deficit quest’anno sarà un po’ sotto quanto noi stessi abbiamo previsto in aprile. Ma in questo momento di debolezza non possiamo affrontare una correzione dei conti troppo rapida».
A Tria ieri al Festival dell’Economia di Trento ha dato manforte Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale: «Probabilmente non è corretto correggere i conti alla velocità richiesta dalle regole europee — ha osservato Blanchard, oggi al Peterson Institute di Washington —. Ma l’Italia è di fronte al problema che gli investitori si chiedono se il suo debito sia sicuro. Se pensano che le politiche del governo saranno irresponsabili, non ci sarà modo di trattenerli. Il compito di Tria è convincerli del contrario».