I l problema di far nascere il governo Cottarelli non era (e non è) legato alla lista dei ministri, alla difficoltà di formare una squadra di governo. Il problema era (ed è) che senza un esecutivo pienamente legittimato dal Parlamento, l’Italia rischierebbe di precipitare in una crisi simile a quella che nel 2011 la portò sull’orlo del baratro. E senza un gabinetto che possa attivare in Europa i meccanismi di salvaguardia — impossibilitato cioè a firmare qualsiasi tipo di negoziazione — il Paese non potrebbe reggere l’urto della speculazione, non potrebbe collocare il debito sui mercati, garantire la tutela del risparmio .
Senza un governo si staccherebbero i contatti con le istituzioni comunitarie: né Bruxelles né la Bce avrebbero un interlocutore a Roma, le banche entrerebbero in sofferenza, persino la Troika non potrebbe intervenire. E l’Italia, isolata, potrebbe affogare senza poter essere aiutata.
Ecco cos’è successo ieri pomeriggio al Quirinale, mentre veniva allestita la pedana nel salone dove solitamente i ministri giurano nelle mani del capo dello Stato, mentre i corazzieri — posti davanti allo studio di Mattarella — preannunciavano l’uscita di Cottarelli con i nomi della sua squadra. E nel momento in cui la «scorta» del presidente della Repubblica ha abbandonato la postazione, la crisi si è svelata in tutta la sua drammaticità, e si è sentito l’eco dell’allarme che da Bankitalia e dal Tesoro era giunto fino al Colle: con un governo che sarebbe stato sfiduciato dalle Camere, l’Italia non avrebbe retto quattro mesi in attesa delle elezioni. La sua bocciatura in Parlamento avrebbe fatto crollare la fiducia dei mercati oltre a incrinare l’istituto della presidenza della Repubblica.
Perciò Cottarelli non ha formalizzato il suo impegno. E certo si dovrà capire come mai si è arrivati a questo punto, ma non c’è dubbio che a un passo dal default politico ed economico, i leader dei partiti usciti vincenti dal voto si sono resi conto che avrebbero potuto subito rivincere nelle urne. E che avrebbero potuto chiedere di nuovo la guida del governo. Ma sulle macerie del Paese. I segnali di emergenza erano evidenti: la caduta delle borse, lo spread a 320. È vero che ai tempi di Berlusconi l’indicatore arrivò a 574, ma allora non c’era lo «scudo» della Bce sui titoli di Stato.
Prima di salire al Quirinale, Cottarelli aveva esposto la situazione al vicesegretario leghista Giorgetti, che a sua volta aveva garantito un segnale di «responsabilità» con l’approvazione rapida del Def in Parlamento. Sebbene Salvini non avesse mancato di far sapere — come a voler scaricare ogni responsabilità — che «a drammatizzare la situazione sui mercati aveva contribuito il discorso del capo dello Stato» dopo il fallimento del governo Conte, era chiaro che il via libera al Documento economico non sarebbe potuto bastare. In un clima di approssimazione e improvvisazione, mentre al Senato tutti i partiti — in preda al più sfrenato tatticismo — si univano per chiedere pubblicamente le elezioni il 29 luglio, tutti i partiti riservatamente avevano avviato nuove trattative.
Cottarelli si trovava ancora da Mattarella, mentre al Colle giungevano i segnali di Berlusconi, di Renzi, «a certe condizioni» anche di Salvini. Persino Di Maio si rimangiava l’impeachment e disperatamente — pur di rientrare in gioco — si diceva «a disposizione». Ecco il motivo per cui il capo dello Stato ha offerto un ulteriore margine di tempo per la soluzione della crisi: fino a domani sera Cottarelli sarà tenuto in stand-by, in attesa di verificare se i partiti avranno trovato una soluzione.
Le ipotesi sul campo sono numerose. Resta in piedi l’opzione del governo tecnico a cui consentire un passaggio indolore in Parlamento, ma a patto di formalizzare in via preventiva il ritorno alle urne non più tardi di settembre-ottobre: non a caso alle personalità che Cottarelli ha messo in squadra è stato chiesto di pazientare per ventiquattr’ore. Il problema per il presidente del Consiglio incaricato è come garantirsi la «non sfiducia» da parte del blocco sovranista-populista. Cosa non semplice. C’è poi l’idea di un gabinetto guidato da Salvini o Giorgetti, a trazione centrodestra, che alle Camere dovrebbe tentare di non essere battuto grazie al gioco di sponda con altri gruppi: lo schema è visto con favore dai forzisti ma contrasta con gli obiettivi del capo del Carroccio.
Infine c’è l’ipotesi di un ritorno al binomio Lega-M5S, a cui si aggiungerebbe stavolta la Meloni, che ieri sera ha annunciato di esser pronta a entrare in maggioranza. È la soluzione più accreditata, magari con rentrée di Conte a Palazzo Chigi. Se non fosse che resta un nodo da sciogliere. E non di poco conto. Il Quirinale potrebbe anche richiamare Salvini e Di Maio, ma Lega e Cinque Stelle non potrebbero ripresentarsi davanti al capo dello Stato con la stessa lista di ministri. Il problema è la casella dell’Economia, il problema è il professor Savona, che ieri — a fronte del caos sui mercati — sibillinamente sosteneva: «Non c’è possibilità di default del debito pubblico italiano. Lo devono capire». I giochi nel Palazzo sono ancora aperti, mentre i mercati (e un pezzo d’Europa) giocano contro l’Italia.