La notte peggiore è quella che precede le aule vuote e le campanelle silenziate. Dorme pochissimo, Giuseppe Conte. Lascia Palazzo Chigi quando è già buio pesto. Roberto Speranza gli ha appena spiegato che i numeri di martedì 3 marzo consiglierebbero una scelta drammatica: chiudere le scuole. Sa, il premier, che l’effetto sarà devastante, «mi preoccupo del messaggio che daremo al Paese, degli effetti sulla tenuta sociale e sui lavoratori». Vorrebbe evitare tutto questo, fortissimamente. Vorrebbe, ma sa che non potrà. «Devo bilanciare la salute e l’economia, e cercheremo in tutti i modi di farlo. Ma non posso che mettere la salute al primo posto». Mentalmente si prepara a parlare al Paese, a chiedere un sacrificio enorme per difendere i più fragili. Anticipa la decisione a Sergio Mattarella, che dal Colle segue l’emergenza. E che potrebbe decidere a sua volta di intervenire, parlando agli italiani. Come se fosse una guerra – e in effetti tutto lo richiama, i gesti, le parole, la paura – deve presentarsi davanti a una telecamera. Raccontare l’emergenza, dopo aver pagato dieci giorni fa un prezzo pesantissimo per quelle sedici apparizioni tv, compreso il passaggio nella trasmissione della D’Urso mentre un sottopancia annunciava un servizio su Morgan. «Io volevo solo metterci la faccia», aveva spiegato ammettendo comunque l’errore. E adesso? Adesso si consulta con lo staff e sceglie una formula più neutra, quella del videomessaggio all’ora dei tg. Sceglie, soprattutto, di non girare più intorno al problema: siamo in emergenza, così la sanità non regge, siamo tutti sulla stessa barca.
Cinque minuti e quattordici secondi in tutto, il premier è provato. Ha dormito niente. «Ma ho il dovere di spiegare agli italiani, visto l’impatto che avranno queste misure». Rivendica di muoversi sempre così, nei momenti chiave della sua vita politica, anche se gli rinfacciano una sostanziale afonia in questi logoranti giorni d’emergenza. Ribatte sempre allo stesso modo, rammentando che quando è esploso il caso dell’Ilva lui è volato lì, «tra gli operai, a metterci la faccia». Stavolta però è diverso. Stavolta l’Italia rischia, «la situazione è pesante».
C’è un momento preciso in cui decide che l’unica strada che si può percorrere è quella di bloccare a casa gli studenti d’Italia. Succede quando di fronte agli altri ministri – e poi in separata sede, faccia a faccia – il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro spiega quello che nessuno vorrebbe sentirsi dire, e cioè che il trend negativo dei contagi degli ultimi due giorni va fermato, costi quel che costi. Che il rischio di nuovi focolai in Lombardia è allarmante, lo spettro che si allarghi al Sud addirittura da brividi. Che proiettando questa tendenza a domenica, e poi ai giorni successivi, alla fine si arriva al tilt del sistema sanitario. Grandi numeri, più malati in terapia intensiva, più vittime, meno posti letto. Se non si ferma la tendenza, si arriva teoricamente addirittura a rischiare di dover scegliere chi privilegiare nelle cure. È troppo. I ministri, tutti i ministri, si rimettono al premier. E Conte, dopo un pasticcio mediatico culminato nella frenata della ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, decide di procedere «politicamente», perché gli scienziati sollevano alcuni dubbi – alla chiusura. E di parlare. Per la prima volta, usa un linguaggio quasi crudo, non freddo però: «Siamo sulla stessa barca, chi ha il timone ha il dovere di indicare la rotta, dobbiamo fare uno sforzo in più, farlo insieme. L’Italia tutta è chiamata a fare la propria parte».
C’è poco da giraci intorno, stavolta. Di buono c’è che la mortalità non è quella della Sars, «il dato positivo è che la grandissima parte delle persone contagiate guariscono senza conseguenze ». Di cattivo che il contagio galoppa e la sanità finirebbe per collassare: «C’è preoccupazione perché una certa percentuale di persone necessita di un’assistenza continuata in terapia intensiva». E poi, ancora più nettamente, senza addolcire la pillola: «Dobbiamo essere consapevoli che in caso di crescita esponenziale non solo l’Italia, ma nessun Paese al mondo potrebbe affrontare una simile situazione di emergenza in termini di strutture, posti letto e risorse umane richieste». Nonostante l’aumento delle unità di terapia intensiva e dei posti letto, insomma, «non è possibile potenziare le strutture sanitarie in breve tempo», non a sufficienza se il virus diventa epidemia nazionale.
C’è poco da aggiungere, a quel punto. Solo ricordare comportamenti quotidiani fondamentali – «lavare le mani spesso, starnutire e tossire in un fazzoletto o nella piega del gomito, mantenere un metro di distanza nei contatti sociali, evitare abbracci, strette di mano, luoghi affollati» – tutte misure che se applicate con rigore ridurrebbero di molto il contagio e la durata di questa quarantena di fatto del Paese.
È stanco, Conte. Ma l’ultimo passaggio serve a motivare. Promettendo di strappare all’Europa «tutta la flessibilità di bilancio di cui ci sarà bisogno». E annunciando un piano straordinario di opere pubbliche, keynesiano, sul modello del ponte Morandi: «Ci insegna che quando il nostro Paese viene colpito sa rialzarsi. E quando l’emergenza sarà terminata, volgeremo lo sguardo indietro, orgogliosi di come un intero Paese ha rialzato la testa».