Torino e la sua economia sono distanti, per molti versi, da quell’asse di crescita che si sviluppa lungo la direttrice Verona-Brescia-Milano-Bologna in cui si propende a scorgere il cardine di un “modello italiano”, luogo di condensazione delle migliori capacità imprenditoriali dell’Italia d’oggi. Torino e, in misura ancora più accentuata, Genova costituiscono i punti cardinali di un Nord Ovest che stenta ad assimilarsi alle dinamiche e agli impulsi di crescita più vigorosi, come se ancora subissero il condizionamento della loro storia passata, da cui non si sono emancipate fino in fondo. Torino, in particolare, sembra ora pagare il prezzo di una transizione irrisolta perché, da un lato, essa non riflette più il primato della grande impresa di un tempo e, dall’altro, ha operato una metamorfosi su se stessa che è rimasta incompiuta. Insomma, non è più la città della grande industria e non possiede ancora le caratteristiche salienti di una diversa organizzazione dello spazio e delle funzioni economiche, necessarie per affermare un proprio modello di città. D’altronde, la ricerca di una nuova prospettiva non può essere un compito agevole per una società locale che si è identificata con una delle “fabbriche giganti” del mondo economico di ieri (per dirla con lo storico americano Joshua Freeman). In quel lascito storico è incorporata un’eredità ingombrante.
Oggi Torino deve ripensare la propria misura. Mentre non ha più senso instaurare un continuo confronto col passato, che si risolve sempre nel porre l’enfasi sulle perdite subìte, la città deve ancora fare i conti con le proprie effettive capacità e dotazioni, se vuole ridefinire il suo posto nel mondo. Altrimenti, è destinata a rimanere una realtà che non è in grado di riconoscersi, non sa riconciliarsi con se stessa e dunque non riesce a venire a capo dei propri contrasti e lacerazioni.
Un forte invito concreto a ripensare Torino al di fuori degli schemi correnti giunge adesso da una delle imprese storiche della città, Lavazza, che ha inaugurato il proprio nuovo centro direzionale, la “Nuvola”, progettato dall’architetto Cino Zucchi. La novità maggiore sta nel fatto che la struttura aziendale è stata concepita intorno al principio dell’interazione con la città, calata entro la mappa delle funzioni urbane. Da questo punto vista, è come se Lavazza abbia scelto di condividere le politiche e gli interventi per rilanciare la città, che erano stati caratterizzanti delle amministrazioni di centrosinistra nel primo decennio di questo secolo, nel momento in cui ha inteso consolidare il proprio ruolo e la propria immagine d’impresa. Lo scopo è evidente: una nuova stagione economica e industriale per Torino non può essere avviata senza uno stretto confronto con l’assetto urbano, tanto le due cose sono complementari e si rafforzano a vicenda.
Questo è il passaggio più difficile che ha di fronte Torino: sviluppare un percorso di cambiamento che assuma e valorizzi i capisaldi del territorio per dimostrare, sì, la sua capacità di trasformarsi, ma al contempo senza alcuna abiura della propria storia e senza dipendere dal passato. Un’operazione che implica un’altra attitudine: quella di rilanciare e innovare il ruolo economico della città, dando luogo a giochi di cooperazione tra ambiti e settori che hanno bisogno degli impulsi reciproci per sostenersi.
Oggi è reso tutto più complicato dalla mancanza di un tessuto connettivo.La politica nel suo complesso non è mai apparsa tanto debole come ora, ciò che accentua l’opacità dell’amministrazione, sia a livello locale che regionale, sfibrata da un incessante lavorìo di aggiustamento, dove i problemi si consumano su se stessi, senza approdare a risultati stabili. Una condizione che è esasperata dal senso di incertezza e di provvisorietà in cui il lungo periodo non esiste. Basti pensare alla situazione in cui versa il Salone del Libro, che ogni anno, nell’imminenza di una nuova edizione, pare sul punto di giocarsi la sopravvivenza, nell’impossibilità di riconquistare una prospettiva. Grava un’ombra pesante su una politica amministrativa di volta in volta messa in crisi da vicende poco comprensibili o francamente oscure come quella di Finpiemonte, la finanziaria dell’ente regionale, che coltivava l’ambizione di operare come una banca, mentre era soggetta a un inspiegabile disordine gestionale.
La perdita di autorevolezza e di capacità di guida delle istituzioni territoriali ha acutizzato la precarietà di un sistema locale consapevole di essere immerso in un cambiamento che però è costretto ad affrontare senza solidi punti di riferimento. La Torino del 2018 è una città priva di un modello sul quale orientarsi: vent’anni fa aveva rinunciato, sia pure in extremis, al monocromatismo industriale dinanzi alla possibilità di entrare in un’altra stagione, dove si sarebbe affermato un composto di elementi come cultura, turismo, arte, enogastronomia, tenuti assieme dalla ricerca della qualità urbana. Un’ipotesi che si è scontrata, oltre che con la complessità della realizzazione, con l’inaridimento del flusso di risorse pubbliche e con le drammatiche ristrettezze imposte dalla correzione dei conti. Fra l’altro ciò ha prodotto l’effetto di peggiorare la percezione stessa dei problemi. Uno sguardo attento alle periferie rivela che esse posseggono un materiale sociale su cui si può intervenire perché non è stato ancora logorato e disperso. Il merito è anche dei piani municipali, che però si sono interrotti dieci anni fa, quando stavano cominciando a dare frutti. Oggi invece prevale lo stallo, indotto anche da una demografia impietosa, che minaccia di consumare nel giro di pochi anni le opportunità ancora esistenti.
Torino dispone di un humus sociale ancora propizio alla diffusione e alla crescita di imprese sociali, che sappiano incunearsi in quegli ampi margini fra mercato e società dove dimora una domanda di servizi che non può essere soddisfatta con le logiche dell’impresa tradizionale. C’è spazio per attività a forte radicamento locale, che impieghino risorse integrate nel territorio, capaci di assicurare l’erogazione di servizi tagliati a misura della comunità. Un potenziale che attende di essere attivato e che è indispensabile per la tenuta e la coesione di aree urbane le quali rischiano altrimenti il collasso.
Orientare e accompagnare il mutamento di importanti città che hanno vissuto il ciclo della grande industria e della produzione di massa significa dover azionare all’unisono leve differenti. Le micro attività che innervano l’economia cittadina (talvolta addirittura a misura di quartiere) servono anche a rafforzare la presenza del nucleo di imprese che ha superato la crisi per sviluppare strategie di crescita. Imprese di profilo medio e intermedio, che tuttavia si muovono in un raggio d’azione analogo alle organizzazioni più grandi, con in più il vantaggio di una notevole flessibilità operativa. Possono essere imprese che appartengono all’universo del family business, come Lavazza, ma che hanno interiorizzato codici di comportamento e procedure dettate da un’impronta manageriale, o aziende high-tech che sono public company, dal profilo compiutamente manageriale come Prima Industrie, che si muovono con sicurezza nel mercato internazionale. O imprese di dimensioni minori ma che coniugano efficacemente la ricerca tecnologica con una raffinata artigianalità, come la Sabelt di Moncalieri, che produce sedili e cinture di sicurezza per la Formula Uno e per le vetture sportive dell’alto di gamma.
I gangli di questo reticolo industriale si articolano entro uno spazio che non coincide più evidentemente con i confini del sistema produttivo tramontato con la crisi, mentre non delinea ancora a sufficienza il disegno di quello nuovo. Mancano tessere importanti per comporre un altro mosaico economico e non a caso la città attende con qualche ansia l’imminente piano industriale di Fiat Chrysler, per ragionare delle prospettive del suo sistema dell’auto. E tuttavia sta avanzando una logica di cooperazione e di integrazione fra i soggetti economici e imprenditoriali che è forse la vera novità di una Torino assai più capace oggi del passato di preparare le basi per un’alleanza tra le forze portatrici d’innovazione, quelle che potrebbero restituire vitalità al suo tessuto sociale.