Profeta di se stesso. Pochi giorni dopo il voto del 4 marzo, Carlo Cottarelli, previde: «Non credo che si arriverà a un accordo per un governo stabile, penso piuttosto a un governo di transizione che ci porterà a nuove elezioni». E il 21 aprile, quando la situazione era ancora impantanata, cedendo alle domande di Maria Latella in tv, concesse: di fronte a una chiamata del presidente della Repubblica «direi di sì». Ma davvero in quel momento non lo riteneva possibile, perché «dalle urne è uscita un’Italia che vuole fare l’opposto di quello che dico io, cioè un’Italia che vuole fare più deficit». E soprattutto Cottarelli non poteva immaginare una chiamata al Colle in una situazione così drammatica. Ma ora non è più tempo di scherzare, come quando, a chi gli poneva la solita domanda su una sua possibile premiership, rispondeva sorridendo: «Più facile che mi chiami l’Inter al posto di Icardi».
Nato 64 anni fa a Cremona, Cottarelli, sposato e con due figli, è rimasto sconosciuto ai più fino a quando il governo di Enrico Letta, su iniziativa dell’allora ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, individuò nell’alto dirigente del Fondo monetario internazionale l’uomo giusto per l’incarico di commissario straordinario per la spending review, cioè il taglio della spesa pubblica, che era una delle priorità dell’esecutivo. Cottarelli, a Washington dal 1988, aveva guidato per anni le missioni del Fondo in Italia, quelle cioè per fare gli esami e dare i voti alla politica economica del governo. Ma la conoscenza col ministro risaliva a prima. Cottarelli, infatti, dopo la laurea in Scienze economiche e bancarie a Siena, aveva cominciato a lavorare nel 1981 al Servizio studi della Banca d’Italia, dove Saccomanni era a capo della direzione internazionale.
«Mister Forbici», come venne subito soprannominato, entrò in servizio come commissario per la spending a ottobre del 2013, rinunciando come primo atto all’auto di servizio. Pochi mesi dopo si trovò sotto un altro ministro, Pier Carlo Padoan, e un altro premier, Matteo Renzi, che subito lo mise in guardia sulle pensioni: niente contributo straordinario del 15% sugli assegni sopra i 2.500 euro. Cottarelli ritirò la proposta perché, spiegò in Parlamento, le scelte politiche le fa il governo. Ma come disse alla fine di ottobre del 2014, quando ormai aveva lasciato l’incarico per tornare a Washington, nei confronti del premier Renzi «quella che in inglese si chiama chemistry non è scattata». Ciò non toglie che Cottarelli abbia impostato un piano di tagli della spesa che in parte, non molta per la verità, è stato realizzato: «Il mio piano prevedeva 34 miliardi di spiarmi e 8-10 sono stati fatti, ma mi rendo conto che molte delle proposte sono difficili da realizzare», ha commentato.
L’ex Mister Forbici è tornato alla ribalta l’anno scorso con il suo ritorno in Italia, dopo essere andato in pensione dal Fondo monetario. Cottarelli, infatti, si è fatto notare per la creazione dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani presso l’Università cattolica di Milano che, durante la campagna elettorale, è diventato una sorta di tribunale per la verifica dei programmi dei partiti. Cottarelli non ha fatto sconti a nessuno. E si è guadagnato il rispetto di tutti. Le analisi dell’Osservatorio hanno smascherato le dosi più o meno grandi di propaganda contenute in tutti i programmi. Sul contratto di governo tra Lega e 5 Stelle, Cottarelli ha concluso che avrebbe avuto costi compresi tra 108 e 125 miliardi mentre le coperture indicate non superavano i 550 milioni. Per questo, qualche giorno fa, aveva avvertito: è un programma che farà «arrabbiare i mercati». Non gli piaceva la cosiddetta «pace fiscale», perché «è l’ennesimo condono». E non gli piaceva la flat tax perché è «a favore dei più ricchi». La stessa tesi delle sinistre.
Ma Cottarelli è stato corteggiato prima del voto anche da Silvio Berlusconi, che gli ha offerto di fare il ministro, mentre il capo dei 5 Stelle, Luigi Di Maio, aveva assicurato: «Useremo una parte del piano Cottarelli per tagliare gli sprechi».
Adesso, il tecnico che rispetta la politica, e che il 9 febbraio diceva «non so per chi votare» dovrà fare scelte decisive nel contesto di uno scontro istituzionale senza precedenti e sotto il rischio di una bufera sui mercati. Oggi salirà al Quirinale, magari a piedi (visto che ha elogiato i politici che avevano fatto così ad aprile), con la consapevolezza di essere stato chiamato da Mattarella perché il suo solo nome, la sua storia, il suo curriculum sono assoluta garanzia di permanenza dell’Italia nell’euro. L’abbandono della moneta unica sarebbe «un trauma», ha spiegato una volta l’economista: si svaluterebbe la moneta, schizzerebbe l’inflazione, ne soffrirebbero i salari, diventeremmo tutti più poveri.
L’euro e l’Europa saranno i punti fermi. Poi ci sarà da formare la squadra di governo. Qualche nome comincia già circolare, per esempio quello del prefetto Paolo Tronca, ex commissario di Roma, per gli Interni. Mister Forbici ora deve trasformarsi in Mister Salvezza.