Il patto tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio è forte. L’elezione di Elisabetta Alberti Casellati al Senato e di Roberto Fico alla Camera lo cementa. A Casellati sono andati 240 voti, praticamente quasi tutti quelli di centrodestra e pentastellati. A Fico, invece, sono mancati circa 70 voti rispetto ai 422 incassati. Probabilmente l’onda lunga dello scontro tra Forza Italia e la Lega. Ma è un risultato che consegna un vantaggio tanto a Salvini quanto a Di Maio: al segretario della Lega la conferma della leadership del centrodestra, ai danni di Berlusconi e di Fi; al capo politico del M5S la pax interna con l’ala ortodossa vicina al neopresidente della Camera.
Raggiunto il traguardo sulle presidenze, ieri già imperversava la regina delle domande: l’intesa si riproporrà anche sulla partita per il governo? Ed è la domanda che ha tenuto banco a Palazzo Grazioli per tutta la tormentata notte di venerdì, conclusasi con la decisione di Berlusconi di arrivare a un compromesso con l’alleato pur di non lasciargli mano libera su eventuali nuovi accordi con i Cinque Stelle. Un armistizio giunto solo dopo un pressing fortissimo di Giorgia Meloni. La presidente di Fratelli d’Italia ha chiesto e ottenuto che Salvini e Berlusconi tornassero a parlarsi per ricomporre l’unità della coalizione. Un problema che non ha investito il Movimento, riappacificato dall’elezione di Fico che consente a Di Maio di rafforzare l’immagine di un M5S governativo e istituzionale. Proprio alla vigilia delle consultazioni al Quirinale.
Il successo dei due leader è stato costruito con una serie di mosse spregiudicate. A partire dall’ostentazione continua del loro filo diretto, immortalato dal murales del bacio. Il tandem Casellati-Fico ne è il frutto. Nulla è stato casuale: l’alt del M5S a Paolo Romani, lo strappo di Salvini che candida una fedelissima di Berlusconi come Anna Maria Bernini, consapevole che avrebbe contribuito a bruciarla, così come la candidatura di Riccardo Fraccaro durata il tempo che arrivasse il “veto” (concordato?) del centrodestra. L’esito è che due minoranze – Fi e ortodossi M5S – sono state depotenziate, lasciando a Salvini e Di Maio maggiori spazi di manovra. I timbri sono evidenti. Casellati, dopo aver sottolineato di essere la prima donna a ricoprire la seconda carica dello Stato, ha volutamente ricordato che il suo primo intervento al Senato fu in occasione del «voto di fiducia al primo governo Berlusconi: lì iniziò il mio percorso». Allo stesso modo, Fico non ha rinunciato a marcare la sua matrice di sinistra e antifascista, citando «l’eccidio delle Fosse Ardeatine» nel giorno dell’anniversario e l’importanza di ricostruire «una comunità unita» combattendo gli squilibri.
Assonanze non sono mancate neppure nei discorsi di due neopresidenti tanto diversi. Entrambi hanno sottolineato la necessità di dare una risposta alla domanda di «cambiamento» emersa dal voto del 4 marzo. Casellati ha anticipato che «il tema delle riforme sarà centrale», puntando in particolare su quelle economiche, lavoro in primis: «Sono troppi gli italiani che non hanno un’occupazione, soprattutto tra i giovani, in particolare nel Mezzogiorno». Fico, dal canto suo, ha insistito sulla «centralità del Parlamento» in cui i cittadini possano «tornare a riporre la propria fiducia», garantendo che non permetterà «scorciatoie né forzature del dibattito». Una rivoluzione copernicana per chi era entrato alla Camera appena cinque anni fa sostenendo l’inutilità dei corpi intermedi, dai sindacati al Parlamento.
Ma quella di ieri è stata anche un’elezione nel pieno rispetto del clima istituzionale. Come non avveniva da tempo. Con deputati e senatori tutti in piedi che hanno accolto con un applauso scrosciante l’elezione dei neopresidenti e pacche sulle spalle tra avversari. Come quella del capogruppo uscente del Pd Ettore Rosato a Fico. O l’abbraccio prima ancora della proclamazione tra Bernini e Casellati, che poi ha ricevuto le congratulazioni di Pier Ferdinando Casini, Matteo Renzi e Valeria Fedeli, la candidata di bandiera indicata dai dem. Che hanno voluto mantenere un profilo di meri spettatori. «Ha vinto lo schema del “tocca a loro”», ha commentato Renzi. L’unità sui candidati di bandiera è stata rispettata, ma resta aperta la sfida per la guida del partito.
Con la salita al Colle dei due neopresidenti delle Camere e le dimissioni del premier Gentiloni comincia adesso la fase per la formazione del nuovo governo. Martedì l’elezione dei nuovi capigruppo, entro la settimana quella degli uffici di presidenza. A partire da allora, quando gli interlocutori saranno chiari, il capo dello Stato detterà l’agenda delle consultazioni, che presumibilmente partiranno subito dopo Pasqua. Ma sui tempi per la nascita dell’esecutivo decisivo sarà ancora una volta il confronto Salvini-Di Maio. Al Tg1 il candidato premier del M5S ha di nuovo aperto a tutti per un confronto sui temi, elencando le priorità: «Taglio delle tasse alle imprese, superamento della legge Fornero, aiuti alle famiglie che fanno figli, strumenti per il lavoro dei giovani». Entrambi, Salvini e Di Maio, puntano a conquistare il timone del Governo. Ma quella di Palazzo Chigi non è una poltrona per due.