Valgono poco più di 100 miliardi (101,7, per essere precisi), come un anno e mezzo fa. Rendono ancora il 3%, come allora. E non c’è l’Alitalia, che il governo vorrebbe aggiungere all’elenco. Sono 31 le società dello Stato, portano nelle casse del Tesoro poco più di 2 miliardi (2,1) di dividendi (solo dieci li generano), meno di tre miliardi e mezzo di utili. Si chiamano Ferrovie ed Enel, Eni e Cassa depositi e prestiti, Leonardo e Poste, Monte dei Paschi e Rai. Ma anche Poligrafico e Cinecittà, Sogei e Consip, Autostrade Mediterranee (Ram) e Arexpo, la Sogei informatica che supporta l’Agenda digitale e la Sogin che deve smantellare gli impianti nucleari. Il calcolo, per L’Economia del Corriere della Sera, è del team di Stefano Caselli, prorettore dell’Università Bocconi.Comprende tutte le partecipazioni dirette del ministero dell’Economia.
È un tesoro del Tesoro che fa pensare al deposito immobile delle monete di Zio Paperone. Centrale ragionarci mentre il governo gialloverde sta chiamando a raccolta le aziende di Stato chiedendo loro di investire e assumere, proponendo di farle uscire da Confindustria e valutando di trasferirle a Cdp per ridurre il debito pubblico.
Tanti mestieri
È un portafoglio vario dove lo Stato fa mestieri molto diversi, dalle banche agli immobili, dalla gestione del risparmio alla riscossione dei crediti deteriorati. Ci sono le aziende del ventre molle come il Montepaschi per cui il Tesoro ha sopportato nel 2017 un rosso pro-quota di 2,4 miliardi (ma perdono denari anche l’Arexpo che deve trasformare in Parco della scienza i terreni dell’Expo milanese: -22 milioni; l’ingegneristica Sogesid in crisi: -880 mila euro; l’Equitalia Giustizia che gestisce il recupero crediti:-640 mila euro). Ci sono le regine dei dividendi Enel, Poste, Eni. E c’è il fritto misto restante, dalla Studiare Sviluppo che ha per missione l’assistenza alle politiche pubbliche (guadagna 200 mila euro) alla Sose che studia gli studi di settore (utili per 106 mila euro). Se fosse gestita come una holding, la «Tesoro spa» potrebbe avere aree di business affidate a diversi responsabili. Ancora non accade.
Per ogni società, è stato calcolato il valore (effettivo o ipotetico) della quota detenuta direttamente dal ministero del Tesoro. Tre i metodi: la capitalizzazione, se l’azienda è quotata (dati di Borsa al 10 ottobre scorso); il patrimonio netto; e la stima dell’equity value in base ai multipli. Si moltiplica cioè il margine operativo lordo per un coefficiente (in questo caso 7, multiplo medio delle transazioni nel 2018) e si sottraggono i debiti netti. Le quote delle società (una per tutte: l’Eni) che fanno capo a Cassa depositi e prestiti (controllata dal Tesoro all’82,77%) non sono state considerate separatamente, ma incorporate nella stessa Cdp (che ha in pancia anche quote di Terna, Snam, Italgas).
Chi vince la gara del valore? Qual è il gioiello più prezioso? Tolta l’Eni, che in questa analisi vale 2,5 miliardi perché si considera solo la quota diretta del 4,34% in mano al Tesoro (sarebbero 17,5 considerando anche la parte controllata attraverso Cdp), brilla l’Enel, di cui il ministero guidato da Giovanni Tria possiede il 23,58%. L’azienda dell’energia al cui vertice siede Francesco Starace vale 10 miliardi e mezzo di euro per il ministero dell’Economia, sostanzialmente in linea con il maggio 2017 (quando fu condotta un’indagine analoga dalla squadra di Caselli). Segue appunto l’Eni quindi le Poste con 2,4 miliardi ( che salirebbero a 4,8 considerata la quota attraverso Cdp).
La piccola fetta nella Stm dei microprocessori (anche) per gli iPhone, in diplomatica e delicata compartecipazione con il governo francese, vale quasi 2 miliardi (1,9 per il 14%). Mentre la Leonardo, ex Finmeccanica, appena alleatasi con Fincantieri per il polo della Difesa navale italiano resta sotto questa soglia (1,7 miliardi).
Il Montepaschi si conferma un caso. Il Tesoro vi ha immesso oltre 5 miliardi, ha una quota che oggi ne vale solo 1,4. L’anno scorso Mps ha perso 3,5 miliardi (2,4 in carico al Mef). La semestrale 2018 è positiva (+289 milioni), ma l’ideale per lo Stato sarebbe gestire la partecipazione come un fondo di private equity, non da cassettista. Dunque farla rendere e poi uscirne, procedura non scontata. Naturalmente Mps non porta dividendi, a differenza dell’Enav delle torri di controllo negli aeroporti che da rumors potrebbe finire sotto l’ombrello Cdp: 54 milioni di euro di cedole l’anno, vale oltre un miliardo (1,1 per il 53%). È stata l’ultima privatizzazione e viaggia sopra il prezzo del collocamento in Borsa, avvenuto nel 2016.
Vediamo le grandi non quotate. Qui svettano naturalmente le Ferrovie con un valore patrimoniale di 38,6 miliardi (che non comprende l’Anas). L’azienda guidata da Gianfranco Battisti porta alle casse del Mef mezzo miliardo di utili. Preziosa ed estremamente redditizia è poi la partecipazione nella Cdp di Fabrizio Palermo, che il vicepremier 5 Stelle Luigi Di Maio vorrebbe finanziasse persino il leasing dei nuovi aerei dell’Alitalia. Per il Tesoro è un patrimonio da quasi 30 miliardi (29,7). Porta all’azionista Mef 3,6 miliardi di utili e oltre un miliardo di dividendi (1,1). Risultati raggiunti rispettando la consegna imposta dallo statuto, di non mettere a rischio il risparmio postale degli italiani investendo in attività rischiose o in perdita.
I campioni delle cedole
A proposito di dividendi, è chiaro che per le casse del Tesoro cedere partecipazioni di società che ne distribuiscono sarebbe una perdita d’incassi. Fra Enel, Eni, Poste, Leonardo, Stm, Enav, Gse, Sogei e la Consap (la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici) le cedole superano i due miliardi di euro. Guidano le danze oltre a Cdp l’Enel, le Poste e l’Eni.
Fra le grandi non quotate al terzo posto per valore stimato con 4 miliardi c’è la Rai, che cedole non ne distribuisce, ma porta in dote un utile, finalmente, di 14 milioni. Partecipazione d’importanza politica. Altre gemme: il Poligrafico (763 milioni di patrimonio) e Invitalia (750), l’Anas naturalmente (2,8 miliardi) che benché sotto l’ombrello di Fs è rimasta nel perimetro della pubblica amministrazione (quindi non può indebitarsi senza alzare il debito pubblico) e la resuscitata Sga (731 milioni), l’ex bad bank del Banco di Napoli, che ha rilevato i crediti deteriorati di Pop Vicenza e Veneto Banca. Sopra il mezzo miliardo anche Eur e Gestore dei servizi energetici. Il resto è il gran mix delle partecipazioni varie, 15 società che valgono in tutto poco più di un miliardo. In testa c’è la Sogei che pesa 497 milioni e in coda la Studiare Sviluppo: 600 mila euro.