A prima vista i tempi sono stretti, se l’Italia vuole evitare la gabbia di una procedura europea sui conti. Ora che la Commissione ha stabilito che questa sarebbe «giustificata», diventa subito serrato il calendario dei governi europei per decidere se Bruxelles ha visto giusto. Domani ne parlerà un sotto-gruppo di negoziatori delle capitali, martedì lo faranno gli sherpa dei ministri finanziari e per allora quasi tutto sarà chiaro. Se i delegati dei governi daranno ragione alla Commissione, allora di fatto la partita è chiusa: il 9 luglio i ministri dell’Unione europea non dovrebbero che confermare che l’Italia entra in un rete sorveglianza stretta e costante, con la minaccia di sanzioni se non si adeguasse alle richieste di correzione dei conti.
Con questo percorso, per l’esecutivo giallo-verde non resta molto tempo per elaborare nuove concessioni come in dicembre scorso. Meno ancora adesso che i rapporti fra partiti e fra leader sono ben più logori di sei mesi fa. Dev’essere anche per questo che alcuni fra gli investitori esteri tornano a chiedersi se il futuro dell’Italia sia davvero nell’euro. Ormai sul mercato i derivati che assicurano contro il rischio che il Paese passi a una nuova lira svalutata sono più ricercati – e sempre più costosi – rispetto a quelli che assicurano solo contro un’eventuale insolvenza. I titoli pubblici di Roma emessi in dollari, non convertibili in caso di Ital-exit, tornano a offrire rendimenti decisamente più bassi di quelli in euro proprio perché solo i primi proteggono chi li possiede dal rischio di vedersi rimborsare in lire. Se l’Italia oggi paga sulla Spagna un aggravio nel costo dell’indebitamento persino superiore a quanto pagava sulla Germania 13 mesi fa, è anche per questi timori di «exit» che tornano a serpeggiare.
Niente di tutto questo significa che l’ostilità di Lega e M5S verso Bruxelles e la minaccia di procedura Ue mettano il Paese su un piano inclinato. Questa partita non la sta vincendo il piccolo gruppo di parlamentari fissati sul ritorno agli anni ‘70 e ‘80, quando c’era la lira, l’inflazione galoppava a doppia cifra e il debito raddoppiava ogni decennio. Quei timori di uscita, confermati dalla recente raccomandazione parlamentare di usare mini-titoli di Stato («mini-Bot») quasi fossero moneta scambiabile, rivelano altri dubbi diffusi fra i creditori di debito italiano per 697 miliardi sparsi nel resto del mondo: il rapporto fra Roma e Bruxelles sta entrando in una strettoia che può avere tanti sbocchi diversi. È il momento in cui è più difficile scommettere su un esito preciso. È anche quello in cui le parti in gioco iniziano a negoziare sul serio.
Lo stanno già facendo, in realtà. È una trattativa in due direzioni: la prima è del governo con il resto dell’Unione europea, l’altra del premier e del ministro dell’Economia con il resto del governo. Giuseppe Conte e Giovanni Tria vogliono indicare in questi giorni un compromesso che induca i loro colleghi europei a chiedere alla Commissione di «approfondire», cioè di negoziare ancora con l’Italia. Alla base c’è quanto indicato nella risposta del governo a Bruxelles venerdì e nel comunicato di Palazzo Chigi ieri: l’esecuzione delle pensioni a «quota 100», del Reddito di cittadinanza e del bilancio nel complesso sta generando risparmi rispetto alle attese; il deficit a fine anno potrebbe essere al 2,2% del prodotto, forse al 2,1%, comunque sotto al 2,5% previsto da Bruxelles e addirittura in lievissimo miglioramento «strutturale» (cioè al netto delle oscillazioni della congiuntura). È su questo che Conte e Tria insisteranno con i loro interlocutori europei. Dovranno farlo anche con gli italiani, però, perché né Luigi Di Maio né Matteo Salvini hanno ancora accettato che quei risparmi vadano davvero a riduzione del deficit invece che in altre spese. Di certo i commenti dei due vicepremier ieri sono suonati implicitamente concilianti, tanto da favorire un recupero dei titoli di Roma sui mercati a fine giornata.
Conte e Tria capiscono però che questo non è tutto. Non è neppure l’essenziale, in fondo, perché la proposta di procedura sull’Italia nella sostanza riguarda tutt’altro: non decimali di deficit sull’anno scorso o su questo, ma una traiettoria di debito e deficit che dall’anno prossimo in poi si presenta molto pericolosa. «È quel che fa più impressione a tutti», dice un protagonista da Bruxelles.
Il cuore del confronto, fin dalle prossime settimane, sarà qui: cosa si impegna fare questo governo per correggere la rotta con il bilancio da presentare entro il mese di ottobre. La risposta, per ora, non c’è. Salvini e Di Maio escludono gli aumenti dell’Iva già legiferati per 51 miliardi in due anni e ormai concordano su forti tagli alle imposte sui redditi (la «flat tax»). Per rallentare l’ingranaggio europeo, Tria e i suoi uomini dovrebbero invece fornire impegni tangibili su come finanziare tutto questo ma, per ora, non possono.
La procedura non è già inevitabile, non se i governi di Spagna, Francia e Germania dovessero esitare nei prossimi giorni: tutti temono che Salvini trasformi questa svolta di Bruxelles in uno strumento di propaganda interna contro l’Unione europea, con esiti imprevedibili; ma nessuno ha voglia di offrire un trattamento di favore, contro le regole della Ue, all’alleato di Roma degli stessi sovranisti che oggi fanno una dura opposizione a Parigi, a Berlino e a Madrid. La partita resta dunque aperta. Non c’è più molto da giocare, l’Italia non sta vincendo ma la prossima mossa — se davvero vuole farla — spetta a lei.