ArcelorMittal aveva deciso già sei mesi fa, all’inizio dell’estate, di andare via da Taranto. Tanto da mettere in pratica una serie di atti — un rallentamento degli acquisti, le mancate manutenzioni — che andavano in questo senso. Sarebbero questi i primi dati emersi dagli atti che ieri la Guardia di finanza ha sequestrato nella sede di ArcelorMittal e acquisito in quella di Ilva. In mano due decreti di perquisizione, firmati dalle procure di Milano e Taranto, che parallelamente stanno cercando di accertare cosa abbia portato il colosso franco indiano a cambiare radicalmente strategia industriale in poche settimane. E cioè, se davvero è stata la decisione del governo ad accelerare le cose o se invece l’obiettivo era «con la programmazione delle attività di chiusura, distruggere un tradizionale concorrente nel panorama della siderurgia europea e mondiale, al fine di alterare e falsare il mercato della concorrenza», così come scrivono i commissari dell’Ilva nel loro esposto.
I finanzieri cercavano «documentazione inerente agli ordinativi di materie prime dai fornitori per verificare un’eventuale preordinazione della chiusura». In questo senso, le perquisizione ha avuto esito positivo. Da una prima lettura degli atti emergerebbe che, effettivamente, all’inizio del primo semestre del 2019 il volume degli ordini è calato. C’è però un fatto di cronaca da registrare: proprio a giugno l’allora governo giallo verde annunciò l’eliminazione dello scudo per poi reinserirlo. Per capire come stanno le cose, sarà però necessario aspettare le prossime settimane quando la Finanza presenterà alle due procure i primi risultati delle indagini. Nell’indagine del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dei pm Stefano Civardi e Mauro Clerici si ipotizzano reati di false comunicazioni sociali, distrazione dei beni fallimentari e omissione dei redditi. Tra gli aspetti monitorati l’andamento del titolo (salito dopo l’annuncio di dismissione) sui mercati esteri, che dunque accende una luce sull’attuale management e sulle comunicazioni fatte dall’amministratore delegato Lucia Morselli. Ma obiettivo della magistratura — sulla base della documentazione acquisita e dall’ascolto di alcuni testimoni che ieri sono stati ascoltati come persone informate sui fatti — è anche individuare chi ha deciso il cambio di strategia su Ilva. Uno scenario precipitato in un paio di settimane. Il 15 ottobre scorso, giorno in cui Lucia Morselli viene nominata ad di AcelorMittal in sostituzione di Matthieu Jehl, il ceo di AM Europa parla di «implementazione degli investimenti ambientali» e «miglioramento dei processi di produzione ». La stessa Morselli si dice pronta a dare del suo «meglio per garantire il futuro dell’azienda». Repubblica , il 23 ottobre, racconta del piano di esuberi già pronto: — “Cinquemila persone via”. Il giorno dopo l’azienda fa filtrare una secca smentita, per poi però mettere sul tavolo gli stessi dati. Di più: quando in estate Arcelor lancia il primo ultimatum: «O lo scudo, o andiamo via» lascia esterrefatti i manager italiani che poche ore prime erano stati a Taranto per raccontare dei progetti di sviluppo del siderurgico. In sintesi: il sospetto è che le decisioni vengano prese all’estero. E che la parte italiana è come saltata. Motivo per cui la Finanza dovrà ora capire attentamente se, ma soprattutto chi, ha messo in piedi «una strategia per cagionare un grave nocumento alla produzione nazionale», come prevede l’articolo 499 del codice penale, che prevede il carcere e pene fino a 12 anni.
Nell’inchiesta sono però ipotizzati anche una serie di possibili reati societari e fiscali: è un fatto che Mittal comprasse materie prime da una società del gruppo, con sede in Olanda, probabilmente per assicurarsi vantaggi di natura fiscale. Ma sono da valutare anche le politiche dei prezzi, perché il sospetto — esplicitato anche dal Governo, con un’intervista a Repubblica del ministro Francesco Boccia — è che siano superiori a quelli del mercato. Mentre a prezzi più bassi sarebbe stato venduto il prodotto finito, anche in questo caso attraverso una società del gruppo con sede in Lussemburgo. Se il meccanismo fosse provato dagli atti sequestrati, si capirebbe il motivo per cui Ilva perde due milioni al giorno.