Da ieri pomeriggio sul tavolo del governo c’è un agenda alternativa per il Paese. È declinata in un documento sottoscritto da undici associazioni del mondo produttivo, una sorta di nazionale del Pil unita, forse per la prima volta, nel nome della crescita. «Siamo un partito? Non lo so», riflette Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato. «Di sicuro il nostro messaggio è politico».
Se non è un partito nel senso tecnico, questo movimento è destinato a fare da contrappeso permanente alle decisioni dell’esecutivo, rovesciandone programmi e intenzioni sull’onda di una sfiducia crescente. «Se le parti che rappresentano il mondo dell’economia si compattano significa che chi governa ha superato il senso del limite», avverte Vincenzo Boccia. E poi il presidente di Confindustria attacca: «Se fossi in Conte chiamerei i due vicepremier e direi loro di togliere 2 miliardi l’uno e due l’altro. Se nessuno dei due volesse arretrare mi dimetterei e denuncerei all’opinione pubblica chi non vuole arretrare».
Si sono radunati alle Ogr, le officine dove si riparavano i treni oggi simbolo delle vocazioni multiple di Torino: cultura, innovazione, arte, ricerca. Si sono radunati a Torino anche perché è cominciato tutto qui: il 29 ottobre, con il voto della maggioranza Cinquestelle in Consiglio comunale contro la Torino-Lione; e il 10 novembre, con le 35 mila persone scese in piazza per il Sì, all’Alta velocità e più in generale a un modello di sviluppo fondato sulla crescita. La Tav è stato l’innesco, ha dato sfogo all’Italia che produce e dà lavoro nonostante vincoli che la zavorrano da decenni. Il leader di Confcommercio Carlo Sangalli ne elenca quattro: «Troppe tasse e burocrazia, deficit di legalità e infrastrutture». La Tav è un simbolo perché, a giudizio di questa platea, un Paese che cresce solo grazie a ciò che esporta – per buona parte in Europa, tra l’altro -si punisce da solo se rinuncia a collegamenti e infrastrutture. Ecco perché serve un manifesto alternativo che nasce, anche qui non a caso, a pochi giorni dalla manifestazione del movimento No Tav, sabato sempre a Torino.
Le associazioni che hanno riunito alle Ogr i loro stati generali rappresentano 3 milioni di imprese e 13 milioni di lavoratori, vale a dire il 65% della ricchezza prodotta in Italia e l’80% del valore dell’export. Se il Pil italiano, nel 2017, è tornato ai livelli del 2010, è solo merito delle esportazioni, cioè plasticamente dei prodotti di questa platea di 2 mila persone che ha deciso di ribellarsi e ostentare il proprio orgoglio. «Ci hanno chiamati “prenditori”», dice Merletti, «ma qui c’è gente che ha vissuto la crisi, le imprese fallite, i colleghi che si sono suicidati per vergogna o disperazione. Quest’Italia rialza la testa e reclama ascolto».
I dodici punti – in gran parte fondati sul rilancio delle infrastrutture, grandi opere, cura e manutenzione del territorio – servono per ribaltare innanzitutto una manovra che, dice Boccia, «non avrà alcun impatto sulla crescita». E non affronterà nessuna delle zavorre che frenano chi produce. «Nell’Europa a 28 l’Italia è al 21° posto per strutture portuali e aeroportuali, al 19° per quelle ferroviarie, al 18° per la rete stradale», ricorda il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti. Il risultato, ad esempio, è che il granaio d’Italia non può contare su una superstrada tra Bari e Potenza, le grandi produzioni dirette in Asia partono dai mega porti di Atene o Rotterdam, e – come ricorda il leader dei costruttori Gabriele Buia – «gli stanziamenti in infrastrutture impiegano 15 anni per essere impiegati e la metà del tempo si perde per passare da un’autorizzazione all’altra o da un ministero all’altro».Questi macigni pesano 70 miliardi di export perduto che il partito del Pil non è più disposto a tollerare. «Se si bloccano i cantieri e si depotenzia il piano per l’industria non si cresce», è il messaggio di Boccia.