Di bruschi risvegli, sonni della ragione, sogni e incubi, in un gioco di specchi (spesso anamorfici) e rimandi tratta l’ultimo volume di Paolo Di Paolo, il saggio narrativo intitolato Svegliarsi negli anni Venti. Anche perché, shakespearianamente, «siamo fatti della stessa sostanza dei sogni», e in questo tristissimo debutto di anni Venti del Duemila con la pandemia di Covid-19 ci tocca precisamente vivere un incubo (malauguratamente tutt’altro che onirico). Mentre i Venti del Novecento, inconsapevoli del nefasto avvenire dietro l’angolo e reduci dalle devastazioni della Prima guerra mondiale e dell’influenza spagnola, furono i Roaring Twenties, travolti dal vitalismo e incontenibilmente immersi nella joie de vivre. Un libro che si occupa, dunque, di spiriti (diversi) dei tempi, e di suggestioni lungo il percorso di cento anni costellati di stravolgimenti tanto veloci da risultare inimmaginabili per molte delle generazioni che li hanno attraversati.
Postpandemici, sensuali, carichi di promesse Sono gli anni Venti, ma di un secolo fa
Di Paolo ha il dono di una penna molto felice e di una scrittura fluida e coinvolgente. Un talento naturale, come la sua capacità di cogliere da rabdomante le tendenze in essere, lungo una faglia che sta tra l’attualità sociale (e, non di rado, anche politica), la cultura e l’immaginario di questa nostra postmodernità. E come quella di costruire, al tempo stesso, suggestivi castelli finzionali e narrativi, e colti e documentati ponti tra campi differenti. Così, in questo volume di non fiction, prende le mosse da Siri e Alexa (rispettivamente assistente vocale di Apple e di Amazon, prodigi dell’intelligenza artificiale) per accompagnare il lettore in un viaggio randomico (ma con un seducente filo rosso che lo rende coerente), un po’ a ritroso nel tempo, un po’ a spasso nel presente e un po’ proiettato nel futuro, che oggi appare nerissimo.
Materie giustapposte all’insegna di geometrie della mente e geografie intellettuali che i lettori dello scrittore romano hanno imparato a conoscere bene. C’è l’amato Piero Gobetti, che continua febbrilmente a parlarci da un Novecento di ferro e fuoco e di passione politica giovanile inestinguibile. C’è Kiki de Montparnasse (ovvero, prima della sua metamorfosi in regina di Montparnasse, la poverissima ragazza di provincia Alice Prin), una delle catalizzatrici della poderosa scarica di corrente erotica che attraversò i folli anni Venti parigini e l’«Età del jazz», e che l’autore legge in filigrana rispetto agli aperitivi proibiti e alla sanzione sociale scattata contro la movida nell’«Era Covid».
C’è il «pellegrinaggio» in Berggasse 19, nel museo (e già abitazione) di Sigmund Freud a Vienna, con gli interrogativi su come quel gigante della «scuola del sospetto» (così tipicamente novecentesca) avrebbe interpretato l’odierno disagio della nostra civiltà sull’orlo di un nuovo abisso. C’è la Copenaghen di Niels Bohr, uno dei padri della fisica quantistica (e un pacifista convinto), a confronto con i recenti Fridays for Future, preoccupati per l’«apocalisse a rate» che stiamo vivendo. C’è la Ville Lumière della fotografa e scrittrice surrealista Claude Cahun, il «nome neutro» prescelto dall’antesignana del gender fluid Lucy Renée Mathilde Schwob. C’è, specialmente, Franz Kafka, sulle cui orme l’autore di questo libro compie un viaggio a Merano, giustappunto per afferrare una traccia fondamentale di cosa avesse significato svegliarsi in «quegli altri anni Venti», e delle sue battaglie contro il rapporto spettrale tra gli esseri umani che si combatte anche a colpi di comunicazione. E, nel frattempo, Di Paolo si intrattiene con i propri spettri personali tramite i messaggi Whatsapp del cellulare, e riflette sulla gamification del grande letterato praghese (anch’egli, così irriducibilmente novecentesco), diventato protagonista di un videogioco.
C’è la rabbia, quella alimentata dai populismi, ma anche quella che, ci ricorda l’autore, a sinistra alcuni non riescono assolutamente a capire (mentre dovrebbero, e questa incomprensione è foriera di molti guasti). La rabbia che brucia dentro il petto dalla mattina alla sera di chi nasce in contesti svantaggiati e sa di non avere un futuro, raccontata perfettamente dal rapper scozzese Loki (alias Darren McGarvey), all’antitesi della calma artificiale – sintetica come il Prozac – che ostentano Alexa e Siri nelle loro servizievoli relazioni con gli utenti. E su questo complesso di assonanze, risonanze e dissonanze lo sguardo acuto di Paolo Di Paolo, «strano animale nel mezzo di una muta» (come si definisce), è un viatico da non perdere. Anche perché la sua rappresenta l’ultima generazione che può considerarsi in senso proprio novecentesca.
*Massimiliano Panarari, La Stampa 28 novembre 2020