Come un segno del destino, il “Conte bis” viene salvato da una telefonata e sigillato in un negozio di telefonini. La chiamata è quella con cui a metà mattina Nicola Zingaretti disincaglia la trattativa, scavalca Luigi Di Maio e sigla il patto di governo con Giuseppe Conte. Il centro Tim è quello in cui a fine giornata il premier conduce il figlio di dieci anni, si fa circondare dalle telecamere, si mostra «orgoglioso» dell’endorsement ricevuto da Donald Trump e annuncia con un sorriso muto che la partita è vinta. Manca soltanto l’ultimo miglio, a dire il vero. Passa dall’estromissione del capo 5S dalla vicepresidenza del Consiglio. Poi, tra mercoledì pomeriggio e giovedì mattina, il presidente del Consiglio dimissionario riceverà l’incarico al Quirinale.
Eppure, il risveglio del premier era stato peggiore. Non che Conte temesse davvero un fallimento della trattativa. Ma di buon mattino la rabbia del Pd fatica a restare negli argini, dopo un vertice notturno complicato. Quando Zingaretti telefona all’avvocato, il negoziato è congelato. Ed è già partita un’offensiva incrociata di “veline” infette che rischia di sfuggire di mano. Il Pd ha appena bocciato Di Maio al Viminale, compattamente. «Allora meglio votare», dice anche un renziano come Francesco Bonifazi. I cinquestelle reagiscono annullando l’incontro tra le due delegazioni per il programma e chiedono un esplicito riconoscimento della futura premiership di Conte. I dem rilanciano sostenendo che a queste condizioni il governo non potrà mai nascere.
Poi arriva l’ora dei pontieri. Telefonate, contatti, sms accorati dei renziani e degli amici di Beppe Grillo. Finché Graziano Delrio si incarica di sancire il disgelo: «Non c’è alcun veto del Pd su Conte». Passano pochi minuti e i cinquestelle sfilano Di Maio dalla corsa all’Interno: «Non l’ha mai chiesto», mettono nero su bianco i 5S. E Conte conferma.
È la svolta. Preparata da una telefonata con cui Zingaretti scavalca Di Maio e si rivolge direttamente al premier per gestire le prossime, delicatissime ore. «Sei tu che devi garantirci, Presidente – è il senso della chiamata – perché sei tu il capo delegazione dei cinquestelle al governo». È una nuova sfida diretta al capo grillino. Ma è soprattutto un modo per inquadrare Conte in quota cinquestelle – un’ovvietà, in effetti – e bloccare la riconferma di Di Maio come suo vice. «Non possiamo accettarlo».
L’avvocato ascolta. Assicura che al Pd andranno quasi tutti i ministeri chiave richiesti. Ma rifiuta l’etichetta di premier espresso dai cinquestelle. Mostra di resistere, insomma, alla proposta di Zingaretti, che prevede un vicepremier unico e che inchioderebbe Conte a questa “appartenenza” grillina: «Io sarò un Presidente terzo, non di una parte. È questo che mi darà la forza per mediare tra le due forze». Piuttosto che un vicepremier unico, replica Conte, meglio due vice oppure nessun vice. In realtà, a tarda sera gira voce che l’accordo sia già chiuso. Che in pole per l’incarico di vicepremier unico sia Dario Franceschini, tallonato da Andrea Orlando. E che Conte stia soltanto aspettando il momento giusto per comunicarlo a Di Maio. Il quale, però, resiste. Tanto che una nota del Pd avanza l’ipotesi che il capo dei 5S voglia far saltare tutto. Non accetta di perdere quella postazione, la considera una «umiliazione». Si appella a Conte. Promette battaglia. Se perderà la sfida, dovrà accontentarsi – si fa per dire – del ministero della Difesa. O della Farnesina. Comunque una sconfitta rispetto allo strapotere del passato, perché frutto del pressing del Pd e della guerriglia a cui lo sottopongono i nemici interni. A partire dalla 5S Roberta Lombardi: «Luigi al Viminale? Sono sicura che il nostro capo politico non antepone se stesso al Paese».
Sul bis dell’avvocato, però, nessuno nutre ormai dubbi. E così, con l’allontanarsi delle elezioni anticipate in autunno – e di Matteo Salvini da Palazzo Chigi – i mercati brindano. Lo spread scende fino a 182 punti base, la quota più bassa fatta registrare nell’ultimo mese. Nel frattempo, i capigruppo del Movimento e del Pd tornano a riunirsi per discutere del programma del nuovo esecutivo, in vista delle consultazioni di oggi al Quirinale. «Il lavoro continua in maniera profittevole», fa sapere il dem Andrea Martella. «Siamo ottimisti», gli fanno eco i grillini.
Oggi tocca a Sergio Mattarella tirare le somme.