L’utilizzo del balcone è consentito fino alle 14, non un minuto di più. La limitazione di orario non va attribuita alla sobrietà piemontese quanto alle esigenze dei turisti in arrivo per quell’ora nell’appartamento con vista sulla piazza messo a disposizione degli organizzatori dal proprietario. L’unica cosa non estemporanea di questo atto secondo delle Madamine è stata la partecipazione. Trentamila persone non sono poche per quello che era annunciato come un puro e semplice flash mob, un raduno convocato quasi all’improvviso, contarsi e poi disperdersi rapidamente, astenersi comizianti.
Nasceva senza troppe pretese, è stata invece la conferma dell’esistenza di un blocco sociale cresciuto intorno all’idea di un treno. Questa volta, a differenza del debutto datato 10 novembre, non c’era il sottotesto del declino vero o presunto di Torino. Il flash mob e le parole d’ordine che venivano scandite da un picchetto all’altro riguardavano soltanto il Sì alla Tav, e può anche darsi che la folla superiore alle previsioni, la seconda in due mesi, sia stato un effetto collaterale della grancassa dei Cinque Stelle sull’esito negativo dell’ormai celebre analisi costi-benefici.
Le note di colore su una manifestazione durata un attimo possono limitarsi a una cover con altoparlante dell’inno da stadio We will rock you lasciata cadere opportunamente nel silenzio dalla platea. A un pupazzo di Winnie the Pooh «disposto a rinunciare al miele per avere la Tav». Al boato di disapprovazione quando nel fare l’elenco dei Comuni presenti un malcapitato speaker ha sbagliato l’accentazione di Cavagnolo, paese in provincia di Torino, unico sussulto di una moltitudine silenziosa e consapevole del fatto che bastava la presenza.
I numeri sono quasi gli stessi della prima volta, così come la composizione della folla, associazioni di categoria, piccole e medie imprese anche portate da Mino Giachino, presidente di Sìlavoro, che nelle ultime settimane ha molto insistito e trattato per circoscrivere il perimetro della manifestazione, garantendo sul tenore apartitico dell’iniziativa e tenendo fuori eventuali pulsioni anti-governative.
La strategia de «La Tav e nulla più» ha prodotto l’unica vera novità. Non solo con la presenza di sindaci e amministratori giunti da Veneto, Lombardia e Liguria. Ieri mattina in piazza Castello c’era anche la politica del piano di sopra, con le sue ambiguità sempre da leggere in controluce. Saluti a parte, Sergio Chiamparino si è tenuto a debita distanza dal banchetto del Pd e da Maurizio Martina, intenzionato com’è a rigiocarsi la Regione Piemonte, si voterà a maggio forse con le Europee, con un listone civico senza simboli di partito. Pochi metri di distanza separavano Osvaldo Napoli e altri parlamentari di Forza Italia dal presidente della Liguria Giovanni Toti, nominalmente ancora berlusconiano ma ormai con un piede sulla soglia dell’uscio.
Ma soprattutto c’era la Lega. «La Tav va fatta. Se ai Cinque stelle non va bene ci saranno delle modifiche, ma comunque va fatta». Quando entra in scena la politica, le parole diventano importanti. Contano ancora di più quando a pronunciare una frase così netta è Riccardo Molinari, capogruppo alla Camera dei salviniani noto per la prudenza nelle esternazioni, qualità che nel passato recente lo ha molto aiutato nei giochi di equilibrio dei leghisti piemontesi sul filo della questione Tav. A scendere, le dichiarazioni dei consiglieri regionali e comunali di ogni ordine, grado e territorio sono state dello stesso tenore. A giudicare da ieri, sembra saltato il tappo della diplomazia.
La Lega non è passata inosservata, in una manifestazione che non era contro il governo ma che nasce per contestare una possibile decisione del governo. Chiamparino è stato il primo a mettere in risalto la contraddizione. «La Lega non può scendere in piazza a Torino e fare melina a Roma, altrimenti la sua partecipazione apparirebbe solo come un banale sotterfugio per non perdere consensi». La parola del giorno è stata «referendum», scandita anche dalla folla che considera la consultazione popolare come una arma fine di mondo e caldeggiata ancora una volta da Matteo Salvini.
La piazza serve anche a questo, a stringere certi nodi. Infatti le dichiarazioni dei leader sembrano segnare la fine delle cortesie tra alleati. Se Salvini afferma che si è trattato di «una bella manifestazione, della quale bisogna tener conto», il ministro alle Infrastrutture Danilo Toninelli dice invece che non importa quanta gente ci fosse, «quell’opera la pagano sessanta milioni di italiani». Il cortocircuito è ancora più evidente affiancando il «va fatta» di Molinari al «non si farà» giunto in tarda serata da Alessandro Di Battista. Forse è arrivato l momento di preparare i pop corn.