Un tempo sarebbe stato impensabile: utilizzare i droni per riprendere la rete elettrica, poi elaborare un algoritmo per riconoscere i rami degli alberi un po’ troppo vicini alle linee, e infine mandare una squadra di manutenzione per tagliarli. Un risparmio di tempo e fatica. Ma è solo un esempio della trasformazione e delle nuove sfide che i colossi elettrici come l’Enel stanno vivendo. In un forum al Corriere della Sera ne ha parlato l’amministratore delegato Francesco Starace, 63 anni. L’ingegnere nucleare che, ironia della sorte, ha lanciato il gruppo sulla strada senza ritorno delle energie rinnovabili.
Si parla di transizione energetica, ma oggi l’offerta mondiale è ancora composta da fonti fossili per l’80%, come quarant’anni fa. Come si fa a non distruggere valore e occupazione?
«La transizione non è un processo che distrugge valore o lavoro. Secondo uno studio Irena l’industria dell’energia rinnovabile ha creato ad oggi 11 milioni di posti partendo da zero, e l’International Labour Organization prevede che al 2030 ne saranno creati altri 18 milioni grazie alla transizione energetica. Quello della distruzione di occupazione è uno dei falsi miti che viene smentito dai fatti. Quando si procede verso la decarbonizzazione i posti di lavoro aumentano».
Ma lei riesce a fare delle previsioni?
«Quello che posso dire è che negli ultimi 60 anni, nel mondo, si è investito in un patrimonio sterminato di impianti di energia da fonti fossili, che ora deve cambiare pelle. Il processo di sostituzione è avviato, sta accelerando, ma deve ancora raggiungere la velocità di crociera. La previsione al 2050 è che si arrivi a un mix globale con il 60% di energia elettrica rinnovabile. Con molte differenze regionali e con l’Europa, ad esempio, più vicina al 100%».
E per l’Enel? Al 2025 avete promesso l’uscita dal carbone in Italia, che avverrà però con il ricorso al gas e al meccanismo del «capacity market», sfuggito per il rotto della cuffia all’obiezione Ue di aiuto di Stato.
«Per l’Enel lo scenario è diverso: siamo più avanti della media mondiale e il mese scorso abbiamo superato il 50% di energia da fonti rinnovabili. Sul carbone dobbiamo essere realistici e prendere atto della situazione italiana. L’obiettivo del 2025 è assolutamente alla portata, ma per cautelarci, essere sicuri di farcela e non creare un problema nella rete, dobbiamo pensare di inserire qualche impianto a gas a ciclo aperto, oppure a ciclo combinato se sarà necessario».
Quindi ha cambiato idea sul ruolo del gas? Anche per lei diventa un ponte verso questa benedetta transizione?
«No, non è così. Non ho cambiato idea sul gas, che resta pur sempre un combustibile con un impatto sul clima, visto che produce CO2 e la sua catena industriale ha effetti rilevanti sull’ambiente. Ma è vero che potrebbe tornare utile per un periodo transitorio, che credo possa essere molto più breve di quanto si pensa comunemente».
L’Italia potrebbe andare al 100% con energie rinnovabili?
«Per altri Paesi sarebbe più difficile, ma per l’Italia non sarebbe impossibile se il sistema delle reti lo consentisse».
Ma i prezzi dell’energia non salirebbero a dismisura?
«Ci sono studi ed evidenze sul campo che mostrano come a fronte di una crescente penetrazione di energia rinnovabile competitiva il prezzo medio dell’energia tenda a scendere, e a diventare insensibile alle fluttuazioni delle commodities petrolifere. In molte parti del mondo il costo di generazione dell’energia di un impianto solare e eolico ormai è competitivo con quello di un impianto termico».
Bisognerebbe costruire parecchie nuove linee, ampliare le reti, e ciò si tradurrebbe in nuovi oneri per i consumatori in bolletta, non crede?
«Certo, bisogna digitalizzare le reti, aggiungere linee ad alta tensione, magliare molto di più. Ma non si tratta di investimenti stratosferici se rapportati al sistema elettrico di un Paese come l’Italia. Noi stiamo investendo sulla nostra rete 4,9 miliardi da qui al 2021, anche Terna sta investendo sull’alta tensione, e per quanto siano cifre di rilievo sono investimenti assolutamente razionali e fattibili».
In un mondo che cambia così velocemente lei che cosa farebbe se fosse il chief executive di una grande compagnia petrolifera?
«Semplicemente farei il mio mestiere, senza nessun complesso di colpa, sapendo però che è un’attività che avrà una sua durata definita nel tempo, e che il settore tenderà a restringersi, non a crescere».
Nel settore degli accumuli e delle batterie, fondamentale per un sistema elettrico basato su rinnovabili, l’Enel e l’Italia non ci sono. Occasione perduta?
«È vero, nelle batterie l’Italia è in ritardo, ed è un peccato. Sulla questione abbiamo sensibilizzato il ministero, ma ci stiamo anche occupando del modo in cui si possa recuperare il terreno perduto. Ecco, può darsi che noi e il sistema Italia si possa recuperare in un secondo tempo, magari sul riciclo delle batterie delle auto elettriche quando vanno fuori uso».
Avete qualche progetto concreto?
«Sì, lo abbiamo dichiarato, vogliamo occuparci di sviluppare tecnologie per estrarre materiali riutilizzabili, come ad esempio il litio dalle batterie delle auto elettriche o il silicio dei pannelli solari dismessi. Siamo convinti che questa attività oggi poco praticata troverà un suo equilibrio economico e sul tema specifico stiamo stimolando l’innovazione e gli imprenditori».
A proposito di auto elettrica, il vostro progetto di installare le colonnine per la ricarica ha superato gli ostacoli?
«Stiamo installando circa 100 punti di ricarica la settimana. Dopo mesi di fatica e di resistenze amministrative. Arriveremo a 28mila punti di ricarica pubblici entro il 2022. Anche in autostrada».
E quanti saranno in autostrada?
«Quelli che servono. Centinaia. D’altronde l’evidenza è che per le case automobilistiche l’anno zero dei veicoli elettrici sarà il 2021. Ora siamo un po’ ai trailer, ma la grande spinta commerciale la vedremo allora. E noi per quella data dovremo essere pronti con un’infrastruttura adeguata. La stima è che dall’industria automotive arriveranno investimenti nell’ordine di circa 300 miliardi di dollari. Non si potrà non essere pronti».
Ma si aprono delle opportunità o anche qui rischiamo di essere tagliati fuori?
«Opportunità ce ne sono sicuramente, e sono quelle classiche di un Paese come il nostro. Penso ad esempio alla nostra capacità di innovazione e di adattamento nella componentistica. Le auto tedesche sono piene di componenti italiani, perché non dovrebbe essere così per l’auto elettrica? Ciò che è importante è la capacità di adattamento e di innovazione, sia tecnologica che di modello d’impresa. Cose che sono nel Dna dell’Italia».
Smart city, reti intelligenti, auto elettrica, servizi digitali. Ma non temete nel prossimo futuro di essere disintermediati da chi potrebbe fare quei lavori meglio di voi?
«A oggi l’Enel fa metà del suo risultato grazie al trasporto e alla distribuzione dell’energia, e un altro 35% con la produzione. In tempi non troppo lontani siamo stati in grado di individuare sulle energie rinnovabili sviluppi che altri non vedevano. Nel mondo abbiamo confermato un record: anche lo scorso anno nessuno ha installato tanta potenza rinnovabile quanto l’Enel. Poi che qualcuno possa diventare grande come noi ci sta, ma al momento nessuno lo è».
Vi state confrontando con Cdp e Tim sull’integrazione delle reti in fibra ottica, qual è la vostra posizione?
«La nostra posizione è quella di felici azionisti di una società che in due anni ha fatto un incredibile salto in avanti, raggiungendo circa 6 milioni di case-unità cablate. Detto questo valutiamo con favore tutto ciò che aumenta la velocità di esecuzione delle opere, con il fine di dare al Paese un’infrastruttura digitale avanzata che oggi non ha, nel rispetto delle regole e senza creare mostri. Come abbiamo spesso detto gli accrocchi societari non ci piacciono, e non ci piacciono gli scenari da fantascienza».
Che cosa intende?
«Che se si parla di una combinazione l’oggetto in questione è l’attività in fibra ottica e il risultato deve creare valore per il Paese e per gli azionisti.».
Ma quanto vale Open Fiber?
«Tra di noi azionisti abbiamo un patto: prima definire il valore e poi comunicarlo. Ovviamente noi quanto vale lo sappiamo».
Sarebbe possibile anche una cessione?
«Non abbiamo mai detto di voler cedere Open Fiber, ma, ripeto, guardiamo con favore a qualsiasi cosa che crei valore. Il nostro è un ruolo industriale e non finanziario, anche se ovviamente curiamo i nostri interessi».
Nei giorni scorsi si è parlato dei dividendi pagati dall’Enel al ministero dell’Economia e anche del possibile ritorno di quote dell’Enel dal Tesoro a Cdp. Che dice?
«Ricordo che nel 2006 la quota dell’Enel fu trasferita da Cdp al Tesoro perché Cdp controllava anche Terna, e le regole europee in materia di unbundling proprietario non rendevano possibile la coabitazione. E Cdp è ancora azionista di Terna. Quanto ai dividendi, abbiamo assicurato non solo la distribuzione del 70% dell’utile, ma anche un minimo garantito per la prima volta per tre anni dal 2019 al 2021 pari a 32, 34 e 36 centesimi di euro per azione».
Il ministro dell’Economia le ha chiesto un extra-dividendo?
«No».
Ormai si parla apertamente di emergenza climatica, è ottimista sul futuro?
«A dirla tutta non sono particolarmente ottimista. Ci sono motivi per sperare, ma anche per non farlo. Se si guarda a ciò che offre la sola tecnologia, gli strumenti per affrontarla ci sono già tutti, ma la volontà di farlo non è così scontata. L’Italia la sua parte la fa, ed è certo che centrerà gli obiettivi al 2020. È più una battaglia di cuori che non di strumenti».