Gli europei non si amano più l’un l’altro: «hanno perso la libido». Così ha detto Jean- Claude Juncker in una recente intervista al quotidiano Handelsblatt. Ma quando è iniziato questo calo, ha chiesto l’intervistatore? Più o meno dieci anni dopo la fine della guerra, ha risposto il Presidente uscente della Commissione. Un’esagerazione, visto che il Trattato di Roma (il «matrimonio») entrò in vigore nel 1958. Magari posticipando un po’ il raffreddamento dei sensi, la diagnosi di Juncker è però corretta, l’Europa non scuote più i cuori.
Dobbiamo stupirci? Non più di tanto. In quale unione la passione resiste più di mezzo secolo? Teniamo presente che i primi «innamorati» erano sei Paesi soltanto, oggi siamo in 28 (contando ancora il Regno Unito), e piuttosto diversi l’uno dall’altro. In aggiunta, nell’ultimo decennio abbiamo attraversato una crisi economica spaventosa, che avrebbe messo a dura prova anche le unioni più affiatate. In realtà la vera sorpresa è che gli europei stiano ancora insieme, a dispetto degli allargamenti e nonostante la recessione. Più litigi e divisioni, questo sì. Ma per ora nessun divorzio. Tutti si aspettavano che il referendum del 2016 avrebbe rapidamente condotto alla Brexit.
E molti temevano l’effetto contagio: altri Paesi se ne andranno. Previsione sbagliata. A tre anni di distanza, il Regno Unito è ancora dentro, probabilmente voterà per mandare i suoi rappresentanti a Strasburgo. E il paventato domino non si è verificato. Nessuna Grexit, Frexit o Italexit.
Certo, sono aumentati i voti per i partiti euroscettici, alcuni sono andati al governo, come la Lega. Ed è praticamente certo che i cosiddetti sovranisti guadagneranno molti consensi il 26 maggio. Tuttavia nessuno di loro vuole più uscire. Il piano ora è quello di cambiare la Ue dall’interno. Anche a costo di allearsi con quelle forze (i popolari) che l’Europa l’hanno costruita, grazie a leader del calibro di De Gasperi, Adenauer e Schuman.
Insomma, la Ue tiene, o meglio «rimbalza». Come si spiega? Diciamo subito che non si tratta di una rivincita dell’europeismo delle origini, passionale e federalista. Le ragioni sono più banali. Innanzitutto, la maggioranza degli euroscettici — compresi quelli nostrani— ha capito che uscire dall’euro o dalla Ue equivarrebbe a un salto nel buio. Un conto è pronunciare sentenze nelle piazze o nei talk show, un altro è fare un piano concreto e avviare un percorso istituzionale ad altissimo rischio.
Se l’exit è sconsigliabile, l’alternativa è mobilitarsi per cambiare le cose. In questo caso, tuttavia, bisogna fare i conti con i numeri. Per quanto in crescita, è impensabile che gli euroscettici conquistino la maggioranza necessaria per controllare il Parlamento. L’esigenza di stringere eventuali alleanze imporrà un’altra doccia fredda ai bollori sovranisti, moderando ambizioni e pretese. Se non travalica il perimetro della democrazia, il conflitto ha una sorprendente capacità di creare legami, di «fare sistema». La politica democratica è un pendolo che oscilla fra ideali e compromessi, tende all’impossibile ma realizza solo ciò che è di volta in volta fattibile. Stante la diversità di culture, tradizioni, interessi fra i Paesi membri e i loro leader, la Ue si muove lentamente, senza virate improvvise, come una grande corazzata.
Il rimbalzo dell’Europa non è però soltanto una questione di capacità di resistenza, di effetto elastico. È probabile che ci sia qualcosa di più. Il mondo intorno a noi è drasticamente cambiato. Vi è una crescente e sempre più preoccupante instabilità economica e politica. La Russia e la Cina sono sempre più agitate, il Medio Oriente continua ad essere una polveriera, Trump minaccia di non difenderci più dal punto di vista militare e di danneggiarci da quello commerciale. La Ue ci appare spesso troppo austera, intrusiva, puntigliosa. Troppo economica e poco sociale. Ma resta una corazzata, mentre da solo ciascun Paese membro — persino la potente Germania — non sarebbe che una imbelle fregata, in balia delle onde.
Insomma, più che arrendersi al fatto che «lasciarsi non è possibile», molti europei e soprattutto i loro leader si sono convinti che, tutto sommato, restare insieme è anche desiderabile. Sarebbe bello se qualche leader fosse in grado di infondere un po’ di valore a questo desiderio, ora un po’ troppo utilitarista. Macron ci sta provando, ma ha problemi in casa propria e non può fare tutto da solo. A giudicare dalle prime uscite, i famosi Spitzenkandidaten (candidati di punta di ciascun gruppo politico, e anche aspiranti al ruolo di presidente della Commissione) non sembrano capaci di trasmettere visioni, di scaldare i cuori. A meno di qualche improbabile colpo di reni, la maggioranza degli elettori voterà senza entusiasmo.
Quello che conta è che si confermi la volontà di restare uniti. Magari in modo un po’ meschino e sicuramente senza «amore». Ma con la consapevolezza che la Ue è diventata nei fatti la «comunità di destino» di tutti gli europei. Lo è diventata in senso prosaico e realista, non patriottico. Ma per ora va bene così. A ravvivare la passione ci penseranno i nostri figli e, se non loro, i nostri nipoti.