Quattro settori sono cresciuti, dieci sono riusciti a fermare il declino, ma non si sono ripresi e altri dieci non hanno mai interrotto una scivolata verso il basso iniziata con la Grande recessione di oltre dieci anni fa. È il bilancio dell’industria manifatturiera che emerge da un’analisi puramente quantitativa dei dati Istat, l’istituto statistico italiano. Ne risulta che dal 2008 il settore industriale con i suoi 5,3 milioni di addetti ha attraversato quattro recessioni.
L’ultima è iniziata nel 2018 ed è ancora in corso, secondo i dati dell’Istat, quindi in dodici anni ben cinque e mezzo sono stati attraversati in fase di contrazione di quello che sarebbe il settore trainante dell’economia italiana.
Non è molto diverso il quadro nel settore dei servizi, che dà lavoro a quasi undici milioni di persone ma presenta un’intensità di investimenti pari a poco più della metà del manifatturiero. Qui fra i principali comparti solo due sono cresciuti fino a superare i livelli di fatturato del 2007; altri tre non sono più tornati ai livelli pre-crisi però sono un po’ risaliti dal punto più basso del 2009; due, infine, dopo il crollo hanno continuato a declinare senza fermarsi.
L’Istat non dà giudizi: fornisce valori numerici rigorosamente calcolati. È dunque possibile su questa base tentare un check-up su ciò che è realmente successo nelle diverse aree produttive da quando, alla fine del 2008, l’economia italiana fu contagiata dal contraccolpo del fallimento di Lehman Brothers. Abbiamo appunto diviso i settori in tre gruppi: quelli che sono risaliti sopra ai livelli del 2007, quelli il cui fatturato è rimasto sotto i picchi ma sopra i minimi del 2009 e quelli che dal 2009 in poi hanno continuato a scendere. La relativa maggioranza delle grandi aree produttive del Paese — qui suddivise per gamma, non per geografia o dimensioni — è nella fascia di mezzo: sono in tutto tredici i settori che non stanno più toccando il fondo, ma non sono mai tornati dov’erano prima della crisi. Un altro gruppo di dodici settori risulta in declino perpetuo. Le aree principali che realmente crescono e viaggiano oltre i massimi pre-crisi sono invece in tutto sei.
Nella manifattura, in particolare, se ne contano quattro: l’industria alimentare, che è del 6%sopra ai suoi livelli del 2007 e rappresenta poco meno di un decimo del valore aggiunto del manifatturiero nel suo complesso; il comparto delle bevande, che pesa per meno del 2%ma corre a un 15%sopra i livelli del 2007; la produzione farmaceutica, che pesa per circa il 4%del settore complessivo ma ormai è del 25% sopra ai suoi livelli di tredici anni fa; e infine tutta l’area della riparazione, installazione e manutenzione di macchinari (che dà circa il 3% del valore aggiunto dell’industria).
La lezione
Queste aree, per quanto fra loro diverse, consegnano al resto del Paese alcune lezioni interessanti. Nelle bevande per esempio l’intensità degli investimenti è cresciuta molto (fino a 25 mila euro per addetto all’anno, contro ottomila euro medi nel manifatturiero), la quota delle imprese che praticano la vendita anche in rete è raddoppiata al 20%(doppio anche rispetto alle media del manifatturiero) e metà delle imprese sono esportatrici. Anche nella farmaceutica peraltro gli investimenti (18 mila euro per addetto all’anno) sono più che doppi rispetto alle medie del manifatturiero e la quota delle imprese esportatrici è elevatissima, due terzi del totale.
I restanti quattro quinti del manifatturiero italiano invece non si sono mai davvero ripresi. E’ andata particolarmente male ad alcuni settori tradizionali come tessile, abbigliamento, lavorazione del legno o elettro domestici. Di molto o di poco, questi in media sono tutti sotto i livelli di fatturato raggiunti al fondo della prima fase della Grande recessione a fine 2009. Il fatturato del tessile per esempio è quasi dimezzato dai picchi pre-crisi e, dopo una stabilizzazione fra il 2012 e il 2017, ha ripreso a scendere da oltre un anno. Una sua caratteristica è un livello di investimenti di soli 6.200 euro all’anno per addetto, inferiore alla media del manifatturiero. Simile la vicenda nell’area degli articoli di abbigliamento, che vende quasi un terzo in meno rispetto al 2007 e investe un terzo della media dell’industria (appena 2.400 euro per addetto).
In un’area intermedia si muovono invece altri settori di rilevanza storica per l’Italia, la chimica e la lavorazione di pelli. La prima (vale il 5%del manifatturiero) ha sofferto molto le due recessioni legate rispettivamente a Lehman e alla crisi dell’euro. Ha vissuto un doppio crollo, nel complesso del 25%. Da allora però la produzione chimica ha avviato una lentissima ripresa, che l’ha portata a recuperare il 6%negli ultimi sei anni: dev ’essere dipeso in buona parte da un tenore degli investimenti (16 mila euro per addetto) doppio rispetto alle medie del manifatturiero. Quanto all’industria della pelle, che vale il 3,2% della manifattura italiana, investe poco ma riesce a formare stabilmente metà del suo fatturato tramite l’export. Di conseguenza, dopo un collasso del fatturato del 40%, negli ultimi tre anni ha abbozzato una pur timidissima ripresa. La produzione di auto poi in sé vale circa un ventesimo di tutta la manifattura e nelle due fasi di ripresa 2010-2011, quindi 2015-2017 ha vissuto fortissimi rimbalzi rispettivamente di circa il 30%e del 40%. Ancora oggi però resta lontana dai livelli di fatturato del 2007.
Anche nei servizi si assiste alla stessa divaricazione fra settori. Dal 2014 è cresciuto con continuità di circa il 15% tutto il mondo dell ’accoglienza turistica («alloggio e ristorazione», nella definizione Istat) anche se qui gli investimenti sono di appena poco più di duemila euro l ’anno per addetto. Fra i trasporti invece è sopra ai livelli del 2007 solo l ’area di quello marittimo, mentre i servizi aerei e le consegne postali restano ancora lontani dai picchi. In un lungo ristagno dopo una grave recessione sono infine le «attività professionali» (fra gli altri avvocati, commercialisti, notai), un’altra area a bassissima intensità di investimento.
Il fattore chiave
Nel complesso proprio quest ’ultimo sembra il fattore determinante: solo chi ha saputo trasformare la propria offerta, modernizzandola, è uscito dalle sabbie mobili. Ma per questo serve accesso ai finanziamenti, qualcosa che risultava molto difficile in media per le imprese del manifatturiero fra il 2014 e il 2017. I dati Istat segnalano che la tensione sul credito si è poi allentata nel 2018, ma è tornata a riemergere nel 2019 benché modo meno grave rispetto al passato recente. Di certo questo timido e sussultorio allentamento del credit crunch non basta, per ora, a far uscire la manifattura italiana dalla sua quarta recessione in dodici anni.