Prendiamo, per esempio, Dompé Farmaceutici e Bsp Pharmaceuticals. Nel 2020 la prima è cresciuta di quasi il 23%, la seconda del 17,6%. Non vale rispondere: grazie, lavorano nel settore più premiato dalla pandemia. Fosse questa, l’unica spiegazione, l’annus horribilis del mondo sarebbe dovuto essere l’annus mirabilis dell’industria farmaceutica globale. Invece no. Dimentichiamo che l’emergenza Covid ha bloccato o comunque rallentato la cura di moltissime malattie, anche gravi. Il che, nella realtà, si traduce in un bilancio a rischio «rosso» pure per Big Pharma: dove, si legge nell’indagine Mediobanca sulle maggiori multinazionali manifatturiere, a fine settembre la media dei ricavi era addirittura in calo. Di pochissimo, lo 0,6% appena, ma basta a rendere l’idea. Ed è difficile pensare che l’ultimo trimestre abbia spinto l’indice verso i tetti toccati nell’intero esercizio da Dompé e Bsp. Non in solitaria, peraltro. E non a caso due delle mille Imprese Champions de L’Economia-ItalyPost edizione 2021 (che presenteremo con un numero speciale venerdì 21 maggio, in Borsa).
Battere il benchmark
Esempio in qualche modo opposto, pur se a sua volta tra i luoghi comuni da sfatare: l’alimentare. È l’unica altra industria che non si sia mai fermata, dalle filiere di produzione alle catene di vendita finale. Perciò, come per la farmaceutica, tendiamo a pensare a una crescita generalizzata. Errore, di nuovo. A crescere è stato chi produce per la grande distribuzione o ha potenziato i propri canali online, e nemmeno tanto quanto si sarebbe potuto scommettere. In tempi normali, per dire, definiremmo «robusto» un aumento dei ricavi del 17,6%, come quello della San Vincenzo Salumi, e «buono» il +9% dell’acqua minerale Lauretana (altri Champions 2021). In tempi di Covid, con una performance media della grande distribuzione che qualcuno immaginava un po’ più alta del 4,3% indicato dall’indagine Nielsen, quegli aggettivi potrebbero essere tranquillamente enfatizzati.
Dopodiché, però, c’è l’altro lato del fronte alimentare. Schiera tutti quegli imprenditori che il grosso del fatturato lo fanno con i ristoranti, gli hotel, i bar di mezzo mondo. Sono loro, il meglio del made in Italy enogastronomico. Non è bastato a salvarli. Ed è ovvio: fermi ovunque i viaggi e il turismo, chiusi gli alberghi, ridotto il resto all’asporto, quello che gli addetti ai lavori chiamano «comparto Horeca» è andato in caduta libera quasi alla stessa velocità del settore di riferimento. Crollo del 37%, stima Bain & Co. Poiché anche questa è una media, e tra le peggiori, è evidente che ci sono aziende che il Covid ha sostanzialmente azzerato. Qualcuna non ce la farà, a riprendersi. Altre ripartiranno, benché con molta fatica. Ma il dramma (economico) vero è che nessuno, nemmeno le società più sane, è uscito indenne dall’impatto con l’emergenza sanitaria. Mettiamola così: «successo», di questi tempi e quasi dappertutto, è aver contenuto le perdite e «battuto» il settore. Nell’alimentare-Horeca ci sono riusciti tutti i Champions: Villa Sandi (-%), Astoria (-10,38%), Antinori (-10,5%) nel beverage; Nappi 1991 (–12%) e, per quanto pericolosamente vicini a un calo di un terzo dei ricavi, San Giorgio (-27,3%) e Surgital (-29,9%) nel food.
Iniezione di fiducia
Questo per dire che no: non andava tutto bene ieri, quando eravamo convinti che la pandemia l’avremmo sconfitta in fretta, e non va bene ora, a un passo (si spera) da una ripresa che comunque richiederà tempo, e molto, soltanto per recuperare la devastazione. Vale anche per i Champions. Per quanto frutto dell’analisi di sei anni di bilanci, dunque non di performance spot, il «titolo» non è una patente acquisita una volta per tutte, garanzia assoluta di solidità sufficiente ad affrontare qualunque tipo di crisi. È probabile che, alla chiusura di tutti i conti 2020, l’elenco delle mille aziende top perderà alcuni dei protagonisti di oggi (e altri, però, ne troverà). Resta il fatto che, fin qui, chi ha già approvato i numeri dell’annus horribilis conferma una capacità di resistenza, se non di «crescita nonostante», parecchio superiore alla media.
Non è solo questione di fatturato. Queste sono aziende in controtendenza anche sul fronte della redditività, spesso a due cifre e spesso mantenuta o addirittura migliorata pur a dispetto di entrate in calo. Sarebbe facile spiegarla così: con le fabbriche chiuse, e magari i dipendenti in cassa integrazione, i costi sono diminuiti più dei ricavi. Vero. Vero anche che altri Champions sono stati spinti a mille proprio dal Covid: i fatturati raddoppiati e gli utili quadruplicati non saranno replicabili, con il ritorno alla normalità. C’è comunque un link, che unisce tutti. È la solidità finanziaria. I «Campioni» sono tali soprattutto perché hanno sempre reinvestito i profitti, non hanno debiti (semmai cash), avevano già imparato (dalla crisi 2008-2013) come usare queste armi da un lato per difendersi, dall’altro per cercare le opportunità nascoste. Sono la minoranza? Sì.
La priorità restano le imprese che invece, non per loro colpe, il Covid ha fermato e stravolto? Ancora: sì. Ma adesso che la ripresa si intravvede, sarebbe il caso di guardare anche a chi l’ha già innescata. Così, tanto per cominciare a regalarci un po’ di fiducia.