Cosa vuol dire essere l’anello debole in un’area euro presa dalla sindrome giapponese è la domanda che l’Italia deve porsi per affrontare i prossimi anni a occhi aperti. Che l’Europa si stia trasformando in una sorta di grande Giappone – crescita bassa, investimenti lenti, risparmi alla stelle – non è più solo Mario Draghi a sostenerlo. In settembre, fra mille polemiche, l’ormai ex presidente ha imposto alla Banca centrale europea l’ultimo piano espansivo proprio perché vedeva arrivare questa sorta di strisciante glaciazione che i nipponici hanno conosciuto dopo la loro crisi del debito di trent’anni fa. Che l’area euro rischi di avanzare sulla stessa strada, da ieri lo mostra fra le righe anche la Commissione europea. Dalle sue previsioni viene fuori un messaggio dominante: dopo la frenata della Germania e dell’Europa in questo anno di guerre commerciali fra Stati Uniti e Cina, non si vede la ripresa neanche nel 2021. Non per l’area euro, ancora meno per l’Italia. Il malessere europeo che emerge a Bruxelles non sembra più solo ciclico, alimentato dagli alti e bassi della congiuntura; è sottile, non deflagrando in una recessione, ma permanente.
La produttività del lavoro – il valore prodotto da ciascun addetto in un anno – quest’anno cade in Italia più che in qualunque altro Paese, ma si riduce anche in Germania, Olanda, Spagna. È il segno che sempre più persone lavorano su tecnologie vecchie, data l’insufficienza degli investimenti da quasi un decennio. Al netto della svalutazione dovuta all’usura – si stima alla Commissione – questi sono fermi da nove anni in media dell’area euro. Questo continente sembra sempre più la terra dell’industria del secolo scorso: più auto a diesel e macchine utensili, meno intelligenza artificiale o reti digitali di ultima generazione, meno spesa in ricerca e sviluppo – in proporzione al reddito – che in Cina, Stati Uniti, Giappone.
Così in Germania la crescita per il 2020 è rivista al ribasso di un terzo e non dovrebbe superare l’uno per cento nei prossimi due anni; la crescita europea viene anch’essa sforbiciata e resta inchiodata all’1,2% nel prossimo biennio; consumi e investimenti frenano e sale solo il risparmio di famiglie frugali insicure del futuro (in Germania al 20% del reddito, in Italia al 10%). È plausibile che la Commissione forzi un po’ i toni proprio per spingere Berlino a reagire investendo. Ma l’Italia è comunque più malata degli altri e oggetto allo stesso tempo di maggiori preoccupazioni e più profondo fastidio. Non solo la crescita è stabilmente la più bassa d’Europa, di fatto zero per quest’anno e il prossimo; non solo il debito pubblico più alto dopo la Grecia, in continuo aumento, con Bruxelles che prevede un livello di 137,4% del prodotto lordo nel 2021 (molto sopra il 133,4% annunciato dal governo). Addirittura ieri sera per la prima volta dal 2008 i rendimenti del debito italiano a dieci anni sono diventati superiori a quelli greci, a conferma della diffidenza che circonda il Paese.
Ma appunto il problema è politico. È in quella che, vista da Bruxelles, è l’assenza di direzione di un Paese grande, fragile e imprevedibile. Percepito come una mina vagante che inibisce qualunque possibile concessione tedesca al riequilibrio dell’area euro. Notava ieri sera un negoziatore europeo: «Con le sue condizioni, l’Italia impedisce le discussioni su tutto: dall’unione bancaria a regole di bilancio più moderne e intelligenti». Il Paese è certo stabilizzato sui mercati dopo le paurose oscillazioni del 2018. Ma la domanda a Bruxelles resta la stessa: per quanto?