È passato poco più di un mese dalla nascita del governo e le immagini che ci scorrono davanti sono quelle di un film già visto. L’esecutivo è di nuovo un campo su cui giocare tutte le partite individuali, scaricare tutti i conflitti, esercitare pressioni e minacce. Le parole del premier Conte («chi non fa squadra è fuori») sono la dimostrazione evidente che qualcosa di grave sta già avvenendo. E non si può fare finta di niente o giudicare tutto come una normale dialettica tra i partiti che compongono la maggioranza. La promessa di un’alleanza che non ripetesse gli errori del passato, che con compostezza si mettesse al lavoro per riforme incisive e possibili, che restituisse un clima di serietà e di prudenza sembra già svanita. Forse era un’illusione, forse la politica dell’istante, delle leadership personali, dell’ossessione del consenso immediato sui social non poteva che portare a questo risultato. Ma rassegnarsi non si può. Le due forze politiche, Pd e M5S, che si erano combattute aspramente, insultate e delegittimate dovevano già affrontare un’impresa ai limiti dell’impossibile. Quella di dimostrare che il cambio di fronte non era solo la conseguenza del desiderio di evitare le elezioni e impedire a Salvini di vincerle. Che era possibile, sotto la guida di un premier abile mediatore, ricostituire un rapporto con gli alleati europei e affrontare senza angoscia la manovra. Che si poteva uscire dalla fase delle misure di bandiera, come il Reddito di cittadinanza e Quota 100, costose e sostanzialmente inutili.
I l varo del nuovo governo è stato salutato da un calo dello spread che ci permetterà di risparmiare sui titoli di Stato. È finora l’unica notizia positiva. Per il resto assistiamo a una sequenza di colpi di scena, protagonismi, conflitti, ultimatum. Ha cominciato immediatamente Matteo Renzi con la scissione del Pd e la costituzione di propri gruppi parlamentari. «Ho in mano io il destino del governo, ora dovete fare i conti con me», il messaggio esplicito. E tutti i giorni il governo ha dovuto farli con un’escalation di dissociazioni dal momento in cui si è cominciato a discutere le misure economiche. In scia si è inserito Luigi Di Maio, desideroso di riconquistare la leadership del Movimento Cinque Stelle e mettere in difficoltà Giuseppe Conte che gliela contende. Di Maio si muove come un premier alternativo convocando riunioni separate dei ministri. Ha sempre voglia di distinguersi, arrivando perfino a chiedere di riconvocare il Consiglio che ha varato la manovra perché lui era assente.
Il risultato è deludente per un Paese già provato da una stagione molto difficile. Era chiaro che la manovra economica, fatta in fretta fondamentalmente per bloccare gli aumenti Iva per 23 miliardi, non poteva rappresentare una svolta epocale. Chi guida il governo avrebbe fatto meglio a non annunciare l’ennesima rivoluzione che non c’è. Un po’ di coraggio nello smontare le misure dannose del passato sarebbe invece stato utile. Così come un’azione per rendere più semplice la vita dei contribuenti sarebbe stata apprezzata (è giusto incentivare l’uso del contante; ma perché prevedere per tanti artigiani, commercianti e professionisti ulteriori adempimenti, carte da riempire e pratiche da svolgere? È ragionevole?).
Nella manovra ci sono alcuni provvedimenti positivi (dalla riduzione del cuneo fiscale al rifinanziamento delle misure per l’innovazione delle imprese, dagli incentivi per l’edilizia ai fondi per gli asili nido) e altri da rivedere e mettere a punto (ad esempio le troppe microtasse). Un lavoro di merito nei luoghi istituzionali giusti potrebbe migliorare l’intero impianto e renderlo più rispondente alle attese degli italiani. Invece il cannoneggiamento quotidiano va avanti e il senso di marcia diventa misterioso. Qualche leader guarda ai sondaggi con la speranza che crescano in modo da tornare al voto. Qualcun altro vive nel rimpianto del passato quando con Matteo Salvini si faceva a gara nelle promesse dai balconi. Non sembrano capire che questo esecutivo può durare solo all’insegna della moderazione e del buon governo, tanto più che è nato avendo contro la maggioranza degli italiani.
È una verità banale ma è l’unica che ha un senso. Non ha invece alcun senso lo spettacolo, per alcuni aspetti suicida, di questi giorni. «Un ultimatum al giorno toglie il governo di torno», ha scritto ieri il capo delegazione del Pd Dario Franceschini. Ma può anche accadere che, per voglia di finire la legislatura, il governo resti ma senza concludere nulla. Davvero il Paese non merita di meglio?