I prossimi cento giorni del governo potrebbero anche essere gli ultimi. Ma immaginare che le sue sorti siano legate solo al risultato delle Europee è un errore. Bastava assistere ieri alla riunione degli economisti della Lega per capire quali numeri incideranno sulla durata della legislatura.
Bastava osservare i volti di chi teme i dati dei prossimi due trimestri del Pil, bastava ascoltare le analisi di chi paventa un -0,5% che scardinerebbe i conti dell’Italia e potrebbe infiammare lo spread, con conseguenze devastanti sui titoli di Stato e sul debito pubblico.
Ecco qual è il problema della coalizione giallo-verde: politicamente più rilevante della crisi di consensi che i grillini mettono già in conto, più determinante di una eventuale scissione all’interno del Movimento, più forte del collante di potere che lega oggi Di Maio e Salvini. Così la mossa dei due vice premier di bloccare tutto (tranne le nomine) in attesa del voto a fine maggio rischia di non reggere: supporre — per esempio — che basti posticipare in estate la ripresa dei lavori della Tav o l’intesa con le regioni sulle autonomie, è solo un modo per non dichiarare fallimentare l’esperienza di governo prima del tempo. Inciderebbe sul risultato alle Europee.
Entrambi sono comunque consapevoli che i numeri decisivi non verranno dalle urne, ma saranno legati all’andamento dell’economia che stabilirà i «numerini» della prossima Finanziaria. Siccome è chiaro a tutti cosa accadrà dopo i cento giorni di campagna elettorale, tutti hanno iniziato ad alzare lo sguardo verso il Colle, come si fa ogniqualvolta sul Palazzo prende a piovere. E tutti — maggioranza e opposizioni — interpretano allo stesso modo i segnali che giungono dal Quirinale, dove l’imperativo non è tutelare la legislatura ma tutelare il Paese.
Perciò la previsione bipartisan in questi giorni, è che — al più tardi dopo il voto per l’Europarlamento — il capo dello Stato chiamerà i leader della maggioranza per capire se c’è l’intenzione di portare a compimento la prossima legge di Stabilità, che si preannuncia draconiana: una trentina di miliardi basterebbe appena per tenere a regime il sistema. L’obiettivo di verificare la tenuta della coalizione sarà fondamentale, perché l’Italia non potrebbe permettersi una crisi di governo in piena sessione di bilancio. Politici e commis di Stato fanno le stesse valutazioni dopo esser scesi dal Colle e mettono in conto il voto, «se necessario anche a fine di settembre». Perché è vero che non si è mai votato dopo l’estate, ma è altrettanto vero che di «prime volte» ce ne sono state molte negli ultimi anni.
E piuttosto che l’esercizio provvisorio sarebbe preferibile tornare alle urne, per avere poi un governo con una prospettiva di legislatura, capace di reggere l’urto di una Finanziaria difficile. Il nuovo esecutivo arriverebbe in tempo per gestire il bilancio dello Stato e anche per scegliere il prossimo rappresentante italiano a Bruxelles, visto che i giochi della futura Commissione europea si faranno in autunno. È un fattore non irrilevante, un altro elemento che tiene banco nelle discussioni di partito e nei colloqui istituzionali.
Il resto è stallo. Mentre prosegue il tour di una campagna elettorale senza sosta, va in scena la tattica dilatoria, tra promesse di fedeltà al «contratto» e manovre che celano tentativi di Opa sui voti altrui. L’immobilismo del governo contrasta però con gli appelli che giungono ai leader di maggioranza dalle periferie. E se Di Maio deve fronteggiare la rivolta rumorosa della base per il modo in cui ha difeso il ministro dell’Interno, Salvini deve gestire il nervosismo dei suoi dirigenti del Nord, che gli raccontano di «imprenditori stanchi» per l’andazzo.
Il tutto mentre alle Camere le opposizioni lamentano l’introduzione di fatto del monocameralismo, dato che — dalla legge di Stabilità al decreto Semplificazioni — il governo si presenta ogni volta in un ramo del Parlamento con un testo di un provvedimento, che viene poi radicalmente cambiato nell’altro ramo. Di qui le proteste rivolte a Fico, con la richiesta di aprire un’interlocuzione con palazzo Chigi. Più o meno quello che un commis si è sentito dire al Colle, dove gli hanno spiegato di non avere più un interlocutore a palazzo Chigi. Mancano cento giorni per fare i conti dei voti europei. Ma non è (solo) da quei conti che dipenderà la sorte del governo.