Sembra a prima vista un test sulla politica di bilancio, ma è qualcosa di diverso e di più: è una prima prova di quanto i partiti vincitori di queste elezioni, i Cinque Stelle e la Lega, comprendano e soprattutto accettino le regole di governo dell’area euro. Non sono dunque in gioco i saldi di deficit o il volume del debito — non per il momento — ma la cornice istituzionale attorno a quelle grandezze finanziarie: il fatto che l’Italia non sia affatto un Paese slegato da qualunque obbligo e da qualunque procedura già decisa con gli altri in Europa. La realtà è opposta: l’Italia continua a gestire il suo bilancio nei binari di procedure legali dell’Unione Europea.
Come ogni anno, attorno al 10 aprile il governo uscente dovrebbe varare il Documento di economia e finanza (Def) ed entro la fine del prossimo mese, al più tardi, dovrà mandarne alla Commissione Ue la parte principale: quella che indica le tendenze dei conti pubblici, gli obiettivi di bilancio dell’Italia e le misure previste per centrarli. Questa sezione del Def, il cosiddetto Programma di stabilità e di convergenza, va spedito comunque il mese prossimo anche se un Paese sta attraversando una transizione politica da una maggioranza all’altra. Il punto è capire se quella transizione inizi alterando i contenuti del documento da parte di un governo che cura gli affari correnti in attesa del prossimo; e la risposta prevista dalle procedure europee, in proposito, è negativa. In attesa di un nuovo governo, i documenti da mandare a Bruxelles prevedono semplicemente scenari a «politiche invariate». Spetta all’esecutivo che si insedierà in seguito, eventualmente, cambiarle.
In Italia questa soluzione oggi non appare scontata. Tanto nei Cinque Stelle che nella Lega è partito un dibattito su come influenzare i contenuti del Def di aprile e del programma da inviare a Bruxelles. In un’intervista al Corriere Luigi Di Maio, il leader pentastellato, ha di fatto chiesto al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan di discutere di quel documento per iniziare a integrare parte dei progetti del Movimento.
Impossibile prevedere se questo accadrà. È sicuro, tuttavia, che le procedure europee non prevedono assolutamente una svolta del genere in questa fase. Gli articoli 4 e 7 del regolamento del Patto di stabilità stabiliscono fin dal 1997 che il programma va comunque mandato a Bruxelles «anche se un governo non ha pieni poteri di bilancio». In questi casi si lavora su uno scenario «a politiche invariate».
Quest’ultimo resta pur sempre lievemente diverso dalla pura riconferma della legislazione vigente, perché include voci come gli adeguamenti dei contratti degli statali o il finanziamento delle missioni all’estero nei prossimi anni. Le procedure europee non richiedono che quel documento, essenzialmente un «copia-incolla» delle vecchie decisioni, passi attraverso un’approvazione parlamentare. Il governo in cura degli affari correnti ha solo l’obbligo di specificare a Bruxelles che per adesso si limita a riconfermare quanto già deciso, in attesa delle decisioni di un nuovo esecutivo.
Resta da vedere se in Italia sia possibile approvare un Def e un Programma di stabilità «a politiche invariate» senza un voto parlamentare. Anche solo gli obiettivi di deficit pubblici indicati dal governo uscente del Partito democratico, all’1,6% del Prodotto lordo, sarebbero inaccettabili per Lega e Cinque Stelle e non possono probabilmente raccogliere una maggioranza a favore né alla Camera né al Senato.
Tuttavia non appare affatto scontato che sia necessario un voto in Parlamento per varare un Def, se questo non varia i saldi di finanza pubblica. Sulla carta, insomma, Padoan e il premier uscente Paolo Gentiloni possono limitarsi ad andare per la loro strada, confermando tutto, in attesa di lasciare la mano. Le regole europee prevedono esattamente questo.
Se dunque Lega o Cinque Stelle contestassero questo passaggio, non metterebbero in discussione solo gli equilibri dei conti pubblici; soprattutto, darebbero un segnale che non si riconoscono nel sistema delle procedure europee per gestirli.