Prima la Cina. Poi gli Usa e adesso anche la Germania. Dai Paesi più potenti (in termini di Pil) al mondo stanno arrivando sincronici segnali di rallentamento. L’ultimo dato in questa direzione è stato reso noto ieri da Berlino. A novembre gli ordini di fabbrica per l’industria tedesca sono diminuiti dell’1% rispetto a ottobre, deludendo le attese degli economisti, che si aspettavano una flessione dello 0,1%, secondo il consensus raccolto da Bloomberg.
Questo dato si aggiunge al brutto segnale giunto giovedì dagli Usa, relativo all’indice Ism (indice dei direttori agli acquisti del settore manifatturiero) che a dicembre ha mostrato un netto calo (da 59,3 a 54,1 punti). In Cina il corrispettivo indice (Caixin Manufacturing Pmi) sempre a dicembre è addirittura sceso sotto la soglia di espansione (50) posizionandosi a 49,7 punti, rispetto ai 50,2 punti di novembre e ad attese di 50,1. Questi indici sono certamente più attendibili rispetto ai dati sulla disoccupazione perché si proiettano sui futuri ordini dell’industria e quindi a differenza della fotografia di come si è comportato in un certo mese il mercato del lavoro, i dati Pmi e Ism hanno uno slancio sul futuro. Esattamente quello che osservano gli investitori per capire se è il momento di immettere o ritirare capitali.
Da questo punto di vista non deve confondere la coincidenza del forte rimbalzo delle Borse messo a segno venerdì (e proseguito con proporzioni più modeste ieri con Wall Street nuovamente tonica) coinciso con la pubblicazione dei nuovi occupati a dicembre negli Usa che hanno superato a dicembre quota 312mila rispetto ai 187mila attesi.
I mercati sono saliti nelle ultime due sedute perché venerdì ha parlato Jerome Powell, il governatore della Federal Reserve, dicendosi disposto a fare una pausa sul fronte del rialzo dei tassi nel 2019. È quindi iniziata una sorta di dialogo tra gli investitori e la banca centrale degli Usa. L’obiettivo massimo dei mercati in questa nuova dialettica è quello di spingere la Fed a cambiare completamente rotta, non tanto sul fronte dei tassi, quanto su quello della liquidità. Anche perché la riserva federale – tra le misure di normalizzazione che sta attuando – nel 2019 dovrebbe drenare 500-600 miliardi di dollari dai mercati non reinvestendo i titoli di Stato e le obbligazioni Mbs (Mortgage backed securities) che ha acquistato nell’ambito del programma di quantitative easing: si tratta di un controvalore al massimo di 50 miliardi al mese.
Il punto è che il rallentamento dell’economia in atto – confermato dai dati Ism – accompagnato da un atteggiamento restrittivo da parte della Fed in termini di liquidità potrebbe creare un problema di liquidità per molte aziende americane, che in questa fase vacillano tra la soglia “investment grade” (quella dei titoli ritenuti affidabili) e quella “junk” (i titoli pericolosi) visto che la platea di corporate bond di aziende che hanno un rating al confine (ovvero tripla B) ammonta oggi a 9.200 miliardi di dollari a livello globale, e di questa 5mila miliardi sono negli Usa.
La volatiltà dei mercati nelle prossime settimane potrebbe quindi essere lo specchio di questo confronto. Dipenderà se e fino a quanto la Fed vorrà accontentare gli investitori, il cui capriccio si chiama ancora quantitative easing.