La parola competenza in azienda, da circa trent’anni, ha una sua dignità. In fase di selezione di un candidato, o in fase di promozione, si cerca di capire se possiede la competenza giusta o se ha le potenzialità per acquisirla. Il terreno della competenza è il luogo perfetto su cui costruire la meritocrazia: chi è più competente fa carriera. Nel 1973 uno psicologo americano, David McClelland, sosteneva che la competenza fosse una “caratteristica intrinseca di un individuo in correlazione causale con una performance efficace o superiore al compito”. Il nesso tra competenza e performance è chiaro: non basta sapere, occorre saper fare. Per essere competenti non è sufficiente avere un bacino di conoscenze se poi queste non riescono a tradursi in un risultato efficace. Questa definizione marca la distanza tra chi insegna e chi produce. Per estremizzare, sembrerebbe la perfetta sintesi della differenza tra scuola e azienda. A scuola ti insegnano un nucleo di no-zioni. In azienda devi tradurre tutta questa conoscenza in a-zioni. Questo gioco di parole – no-zioni, a-zioni – ci confermerebbe la distanza tra l’imparato e l’agito. Da una parte imparo ad agire, dall’altra agisco. Prima accumulo e poi rilascio. Ecco capito perché scuola e azienda sono una la continuità dell’altra e, al tempo stesso, distinte una dall’altra? La semplificazione potrebbe andare oltre affermando che la scuola ha come missione quello di educare la persona, mentre l’azienda ha quello di far sopravvivere l’uomo. Fa piacere, invece, scoprire che il tema delle competenze, nel corso di questi ultimi anni, sta transitando verso il mondo della scuola e dell’università. In un libro dal titolo “Le competenze. Una mappa per orientarsi”, scritto da vari autori sotto l’egida della Fondazione Agnelli, si cerca di analizzare il terreno comune tra questi due mondi: come il termine competenza si è evoluto in azienda e in quale modo è entrato a far parte del lessico nel sistema educativo. Il titolo del libro, non a caso, parla di competenza al plurale. Pensare oggi di possedere un’unica competenza sembra essere fuorviante stante l’accelerazione del cambiamento in tutti gli ambiti lavorativi. Le competenze sono per loro natura mutevoli. Nella loro mutevolezza possono impoverirsi o arricchirsi. Possono costruirsi o distruggersi. In alcuni casi il lavoro da scarsamente specializzato passa ad un forte arricchimento di competenze (pensiamo ad un operatore di una macchina utensile di vent’anni fa che svolgeva alcune semplici operazioni e a quello di oggi che deve avere competenze anche informatiche). In altri casi una professione da molto specializzata può fortemente impoverirsi (pensiamo ad un operatore che prima faceva un lavoro manuale a livello artigianale che viene sostituito nelle sue funzioni da una macchina di cui deve semplicemente controllare l’output). In questo gioco di competenze che si sgretolano e si compongono, ci stiamo finendo tutti. Sia chi sta “in alto”, sia chi sta “in basso” nella catena del valore aziendale. Da qui la necessità di lavorare, in azienda e a scuola, sempre più su due fronti: sulle competenze trasversali, chiamate anche soft skills e sulle competenze digitali. Il ritardo dell’apprendimento di queste due aree, è evidente a tutti.
La razionalità emotiva
Ognuno di noi è pagato, e trova una sua intrinseca soddisfazione, per risolvere dei problemi. Quel giorno che nel nostro ufficio e nel nostro reparto non dovessero sorgere dei problemi, diventeremmo inutili. Oggi, la risoluzione dei problemi richiede sempre più l’abilità di mettere insieme capacità legate alla tecnica e alla comprensione dei fenomeni che sono dentro e fuori la tecnica stessa. Paradossalmente, la velocità che il nostro mondo ha assunto ci porta a pensare che la consequenzialità degli eventi sia frutto di un incedere matematico e causale dei singoli meccanismi. E’ proprio la velocità, nel suo procedere sempre più accelerato, che produce un maggiore attrito. Questo attrito richiede di essere attutito non con il ragionamento ritmico, ma con la razionalità emotiva. Sembra un contro senso, stabilire un nesso tra razionalità ed emozioni. Questo è, invece, il punto di chiave: solo una intelligenza emotiva che trova la sua giustificazione nell’intelligenza razionale, ha uno spazio di credibilità e di espansione. Il cambiamento, piccolo e grande che sia, è quel processo che richiede uno sforzo immane per essere realizzato. Se non trova la sua giustificazione razionale, rimane un esercizio che non trova il suo vantaggio. Per quale motivo nelle ricerche di personale, anche di un operaio, vengono richieste competenze come quelle di saper lavorare in team? La collaborazione è oggi un elemento essenziale e tutte le scienze ci dimostrano quanto sia importante la multidisciplinarietà per poter essere in grado di trovare una soluzione ad un enigma scientifico. In azienda la velocità ha assunto il valore del perfetto e, proprio per questo, necessità di essere assistita da una razionalità emotiva in grado di comprendere, in ogni momento, quanto e come ridurre le interferenze, le semplificazioni e le complicazioni. L’autonomia di pensiero, con la relativa responsabilità, diventa una necessità.
La competenza risolve l’incertezza
A questo si aggiunge la difficoltà nel sapere come si evolveranno le singole professioni. Nel dibattito su cosa resisterà allo tsunami tecnologico, ognuno di noi dovrà possedere una competenza chiave: capire in anticipo quando il suo lavoro scomparirà. Entrano in campo le arti divinatorie o magiche? Non proprio. Nel 1993 il sociologo italiano Lanzara, nel suo lavoro “Capacità negative”, ha considerato le competenze come risorse che consentono le singole persone di agire in situazioni critiche dove è richiesta una scelta in condizioni di incertezza. Nella sostanza, le competenze sono identificate come elementi per potenziare l’agire individuale in una situazione sociale piena di incognite. E’ evidente che maturare competenze in grado di farci vedere i rischi strutturali per la nostra dimensione lavorativa, e quindi per la nostra dimensione sociale, non possono trovare una creazione nello spazio aziendale. Occorre andare alla fonte delle pratiche educative, sia nella prima parte del percorso che nel traguardo universitario. Proprio nell’offerta formativa universitaria – come indicato bel libro, – si è fatto largo il tentativo, a livello europeo, di specificare gli obiettivi formativi in termini di risultati di apprendimento attesi in una specifica articolazione:
– conoscenza e capacità di comprensione (knowledge and understanding);
– conoscenza e capacità di comprensione applicate (applying knowledge and understanding);
– autonomia di giudizio (making judgements);
– abilità comunicative (communication skills);
– capacità di apprendere (learning skills).
Queste semplici indicazioni dimostrano come la frattura tra competenze da creare nell’ambito universitario e competenze da alimentare nell’ambito lavorativo, sia del tutto irrilevante e, anzi, coincidente.
Il potenziale non è una faccenda solo aziendale
La stessa definizione di McClelland, apparentemente funzionale al mondo dell’organizzazione produttiva, è superata anche in azienda perché la valutazione della prestazione – l’agito nei fatti tramite le competenze – è sempre distinto dalla valutazione del potenziale – l’agito futuro tramite le competenze attuali. Questa distinzione vale non solo nell’ambito delle politiche di remunerazione, ma, in maggior misura, nelle politiche di selezione dall’esterno e, soprattutto, nella selezione interna. Anche lungo tutta la filiera educativa, il punto cruciale diventa quello di riconoscere ed alimentare il potenziale dello studente. Né più né meno di quello che avviene in azienda. Con “un’aggravante” nel mondo scolastico: il potenziale dell’individuo in quella fase ha spazi enormi di espansione che in azienda diventano molto più ridotti. E’ come se, lato studente, vi fosse la possibilità di fare scegliere tutte le strade del mondo, lato lavoratore si potesse solo muovere l’auto dalla prima alla terza corsia dell’autostrada. Una simile situazione rende la scuola uno spazio che, grazie al modello delle competenze, supera ogni obiezione di riduzionismo. A questo punto, le competenze sono legate a doppia cifra con una cultura umanistica che coinvolge discipline quali quelle delle lingue antiche, l’arte, la storia, la filosofia, la psicologia. Si tratta, in logica di razionalità emotiva, di rendere questo patrimonio cognitivo in un patrimonio applicativo. In questo senso l’orientamento scolastico non può essere lasciato al caso, ma va affrontato in due modi: dedicando tempo alla propensione dei ragazzi verso un lavoro piuttosto che un altro; portando anche a scuola una serie di strumentazioni, es test psicoattitudinali, che in azienda sono usati abitualmente. Il merito di questo libro e quello di rompere la naturale diffidenza tra mondo della scuola e mondo aziendale. Come indicato dagli autori tra scuola e azienda vi è molto spesso una distanza su questi temi e
“all’origine di tali equivoci vi è anche un problema di comunicazione, di immagine distorta dell’approccio per competenze che in certi casi è stata lasciata libera di propagarsi: si è così diffusa l’idea errata che si trattasse di un cambiamento assolutamente rivoluzionario, che poneva la scuola delle competenze in alternativa secca alla scuola delle conoscenze, mentre i saperi testualizzati, patrimonio tradizionale della cultura scolastica, hanno bisogno delle competenze così come le competenze hanno bisogno di tali saperi.”
Titolo: Le competenze. Una mappa per orientarsi
Autore: AA.VV.
Editore: Il Mulino
211 pp; 15 Euro