«Se il Recovery Plan non sarà all’altezza delle ambizioni, il Parlamento non lo sosterrà». David Sassoli scandisce le parole, vuole che il messaggio arrivi chiaro ai governi nazionali che dovranno bollinare il biglietto con cui l’Europa si vuol tirare fuori dalla crisi virale.
Un anno esatto dopo le elezioni che hanno rinnovato Strasburgo, in un’Unione alle corde per la pandemia, il presidente degli eurodeputati attende il programma per la «fase 2» che la Commissione Von der Leyen presenterà in giornata. Non parla di soldi perché confida che le risorse saranno adeguate e, comunque, ne sono già state mobilitate in quantità. Chiede semmai un progetto «che rafforzi le politiche di sviluppo, faciliti il Green Deal e la digitalizzazione, sostenga le economie in crisi. Perché, altrimenti, difficilmente il mercato si risolleverà»
Sassoli risponde al telefono pochi minuti dopo aver terminato un colloquio con Angela Merkel che, racconta, «non vede l’ora di tornare in vacanza ad Ischia». Sarà difficile, con la presidenza tedesca che parte in luglio e la bomba del virus da disinnescare. Ma non impossibile. Molto dipenderà, per i viaggi della cancelliera come per quelli della grande maggioranza dei cittadini europei, dalla qualità e dall’effetto delle misure di rilancio.
Devono essere «ambiziose», insiste il deputato democratico, certo che il suo Parlamento farà il cane da guardia come si confà. «Siamo autorità di bilancio – assicura – e abbiamo l’ultima parola: tutto il percorso deve essere convincente».
Qual è la ricetta?
«Bisogna partire dal rivedere alcune regole della democrazia comunitaria, renderle più snelle ed efficaci per consentire decisioni rapide, senza incartarsi con diritti di veto che bloccano tutto. In questi tre mesi abbiamo ricevuto segnali precisi dai cittadini. È il momento di riprendere l‘idea di una grande conferenza per la Democrazia. La Germania, presidente dell’Ue nel secondo semestre, è favorevole a farlo».
In pratica, cosa vuol dire?
«Indicare risposte ambiziose per il piano di ricostruzione e per l’orizzonte europeo dei prossimi 10 anni. A partire dall’attribuzione di maggiori competenze all’Ue».
Quali, per cominciare?
«Quelle sanitarie, ad esempio, così da non farci cogliere impreparati dalle pandemie. Poi c’è necessità di proseguire il lavoro sulla difesa comune. Serve una politica europea sull’immigrazione e mi ha fatto piacere sentire che la cancelliera Merkel auspichi una riflessione su una fiscalità fondata su standard comuni».
Capiremo molto col Recovery Plan. Che è già cambiato rispetto allo schema franco-tedesco. Teme un annacquamento?
«Credo che sarà ambizioso anche oltre le aspettative. E auspico che i governi cosiddetti “frugali” si comportino in modo responsabile, anche perché sono paesi che hanno da perdere se il mercato unico non dovesse riprendersi».
Bastano i 500 miliardi di cui si parla? Roma ne vorrebbe mille.
«Il tema non è la soglia. Anche perché con l’utilizzo dei bond europei le risorse potranno crescere ulteriormente. Il punto è dove mettere questi soldi e per farne cosa. Una sensazione spiacevole che abbiamo a Bruxelles è che alcuni Paesi perdano tempo e non siano concentrati nel definire le priorità. Molti paesi già faticano a programmare le risorse ordinarie, come quelle della politica di coesione. Non vorrei che questa difficoltà a spendere compromettesse l’efficacia del Piano di Rilancio».
Sta pensando all’Italia?
«Non basta dire quanti soldi sono disponibili, si deve spiegare a cosa servono e per quali piani. Quanto per le infrastrutture, per la digitalizzazione, per riconvertire l’industria inquinante, per potenziare il modello sociale. Questo sforzo viene chiesto a tutti, anche all’Italia».
Come si fa?
«Abbiamo bisogno di rovesciare il paradigma del 2008, quando l’Unione pose delle condizioni agli Stati bisognosi. Oggi è necessario che le capitali presentino i loro modelli di ricostruzione, che siano loro ad indicare le priorità nelle riforme e negli investimenti utili a non lasciare indietro nessuno. L’Europa deve essere chiamata a verificarne la coerenza. Questo è il passaggio fondamentale per archiviare la stagione del rigore. Serve una chiara responsabilità da parte delle autorità pubbliche nazionali per indicare la destinazione delle risorse, sia dei finanziamenti a fondo perduto che dei prestiti. Ecco perché non un solo euro deve andare perduto, sprecato in attività improduttive o clientelari. L’Europa vuole che i soldi arrivino a cittadini e imprese».
Occorrono condizioni?
«Non serve una Europa invasiva. Ma governi responsabili e un’Europa che vigili sulla coerenza degli impegni liberamente presi».
Basta davvero?
«Sono fiducioso, perché credo nella responsabilità».
In Italia si fa la guerra al Mes che non ha vincoli e si spinge per il Recovery Fund che ne ha, seppure blande. Come se ne esce?
«L’Europa ha fatto bene a non imporre nulla a nessuno. Ha reso disponibili degli strumenti, ha aperto nel Mes una linea sanitaria nella quale gli italiani hanno messo 14 miliardi e possono usarne 37 a tasso zero. Se vorranno, potranno farlo. Se no, vi accederanno altri e vorrà dire che la generosità degli italiani aiuterà chi forse ne ha più bisogno. L’Europa ha fatto il proprio dovere: ha fornito delle opportunità».
Saranno tempi brevi?
«L’Europa non è a mani vuote. Molte risorse sono già disponibili. Abbiamo la necessità di fare in fretta, ma anche bene. Non so se chiuderemo in giugno. Ma da qui ai primi di luglio tutto verrà definito dal Consiglio, poi l’ultima parola spetterà al Parlamento. Avremo speso un pugno di settimane per la più importante operazione finanziaria, economica e sociale dell’Europa dal dopoguerra. Il piano Marshall, stavolta, ce lo paghiamo noi».
Non vede disattenzione verso il Sud dell’Europa.
«No. Al contrario mi ha fatto piacere che la presidenza tedesca senta la necessità di riprendere il discorso sui migranti».
Sarebbe ora. Da dove ripartirebbe?
«Oggi la politica europea sull’immigrazione è volontaria. Dobbiamo renderla obbligatoria. La solidarietà europea non è facoltativa».
E la web tax?
«Mi aspetto sorprese. La Commissione vuole aumentare il tetto delle risorse proprie nel bilancio europeo. A questo si potrebbero aggiungere nuove fonti di gettito, dal digitale alla plastica, alla carbon tax».
I cittadini non capiscono perché i colossi Hi-tech non paghino le tasse come un negozio o una impresa.
«Non lo capisco nemmeno io. Da tempo il Parlamento si batte perché tutti versino le tasse dove fanno i profitti. E anche i Big Tech paghino quanto gli altri».