E se fossero loro, alla fine, a riportarci a galla? È probabile. Lo hanno già fatto almeno una volta e, anche se pare che tutti lo abbiamo dimenticato, in uno scenario persino più difficile: il virus, allora, si chiamava Grande Recessione Globale e colpì duro per cinque interminabili anni. Non toccava questioni di salute, è vero. Ma paralizzò il mondo (e provocò molti suicidi).
Qualcuno decise però che la paura andava sfidata, che le crisi prima o poi comunque finiscono e tanto valeva provare a trasformarle in opportunità, che quello era dunque il momento di tirar fuori il coraggio e investire. Li abbiamo chiamati Champions, quegli imprenditori, perché da «campioni» sono i loro bilanci, di ieri e di oggi. Non è che non soffrano l’impatto del panico da Covid-19. Ma le loro storie qualcosa dovrebbero insegnare. Qualcuno, in politica soprattutto, le dovrebbe studiare.
La Paolo Astori Spa, per esempio, produce a Gattico, Novara, dadi e rondelle speciali per l’industria aeronautica mondiale. Nel 2010, anno secondo della Grande Recessione, fatturava 14 milioni. Nel 2012, seconda grande ondata di quella stessa recessione, era salita a 23. Intanto ne aveva messi 20 sul tavolo degli investimenti. Oggi (o meglio: bilancio 2018, l’ultimo depositato) i ricavi sono a 57 milioni, con 34,7 di margine operativo e 23,3 di utili.
Non molto lontano dal novarese, in provincia di Cuneo, la Venchi ha ribaltato una storia centenaria che a un certo punto ha conosciuto anche la parola «fallimento». Nel 2010, quando la gente pensava a tutt’altro che a comprare cioccolatini, aveva un giro d’affari di poco più di 31 milioni. Nel 2018 non è riuscita a centrare la cifra tonda (cento milioni) con cui avrebbe voluto festeggiare i suoi primi 140 anni, ma a quota 91 ha comunque triplicato. E mantenendo una redditività industriale superiore al 20%. Ancora. Tra Milano e Modena, ovvero la sua sede «modaiola» e la sua base produttiva, Stone Island fa uno sportswear-chic maschile che porta nel mondo. Nel 2010 fatturava 47,8 milioni. Nel 2018 ha passato i 190 (ed è una crescita tutta per linee interne). Ne ha 56 di margine operativo e oltre 38 di utile netto.
Anticorpi
Sono solo alcuni esempi. Potremmo farne decine e decine di altri, scorrendo la prima analisi Champions de L’Economia e ItalyPost (la Top 500 di tre anni fa) e mettendola a confronto con l’ultima (la Top Mille delle imprese tra i 20 e i 500 milioni di fatturato, che pubblicheremo il 16 marzo e alla quale dedicheremo un numero speciale e un evento in Piazza Affari venerdì 8 maggio: anche noi, come tutti, causa coronavirus abbiamo dovuto rinviare gli incontri pubblici di febbraio-marzo). Potremmo anche aggiungere, ai dati su crescita e redditività, quelli sulla solidità finanziaria. Li vedremo. Ma non per dire che va tutto bene, signori, abbiamo scherzato, l’effetto Covid-19 sull’economia è stato «largamente esagerato». Il contrario: è stato, semmai, sottovalutato. Né ne sono immuni le piccole e medie aziende sconosciute, spesso, ma Campioni del miglior made in Italy. Certo: nei loro bilanci hanno gli anticorpi necessari ad attutire il colpo (che c’è, e lascerà cicatrici) e preparare la ripartenza. Nel frattempo però sono, per certi aspetti e per quanto possa apparire paradossale, persino più esposte della media.
In parte è ovvio (e inevitabile). Sarebbero bastate le regole del gioco della globalizzazione, peraltro in uno scenario in cui già l’economia europea e ancor più quella italiana non se la passavano bene, a mettere in stato d’allerta aziendale qualunque impresa, di qualsivoglia settore (tranne forse il farmaceutico), di qualsiasi dimensione. I Champions non sono, in questo caso, l’eccezione. Con tassi di export spesso superiori all’80%, ai venti internazionali sono anzi particolarmente sensibili. Niente panico, tra loro, ma nemmeno un giorno passato senza lavorare al di difesa.
Sfide
Poi succede che il Covid-19 arriva in Italia. Con effetti non più del tutto ovvi, né del tutto inevitabili. Loro, gli imprenditori che non hanno mai smesso di crescere, definiscono «isteria» il clima che ha attraversato il Paese la settimana scorsa. Ora pare in lento rientro, però intanto: quella, di settimana, in buona parte delle mille imprese Top 2020 il tempo l’hanno passato a cercare di arginare la suddetta «isteria». Idem tra i venti gruppi best performer nella fascia di ricavi tra i 500 milioni e il miliardo, primo «sguardo» de L’Economia e ItalyPost nell’universo delle grandi ma non ancora grandissime aziende (incominciamo col raccontarne due nella pagina che segue, ndr). Se può dare un’idea dell’irrazionalità: Diasorin è una delle Top 20, ha una redditività industriale del 38% , è leader globale nella diagnostica in vitro, eppure i suoi titoli sono stati tra i più colpiti dal crollo delle Borse in allarme rosso da Covid-19. Ha senso?
Detto ciò, e piazze finanziarie a parte, resta vero che questa è una crisi che può fare molto, molto male anche all’economia. Dipende da quanto durerà. E dipende, da noi, da quanto – al di là delle promesse – le imprese e chi ci lavora «non» saranno lasciati soli ad affrontare difficoltà che non nascono dai mercati. Vale per tutti, Champions inclusi. Sì, loro hanno spalle sufficientemente forti per reggere e ripartire.
Ma questa è esattamente la ragione per cui due cose sarebbero sbagliate: ignorarli, perché «tanto ce la fanno da soli», e sottovalutarne il peso e le potenzialità di traino sul sistema-Paese.
Oggi, edizione 2020, i Campioni sono mille: piccoli e medi imprenditori, presi singolarmente, che però tutti insieme hanno portato i 44,8 miliardi di fatturato del 2012 ai 79 miliardi del 2018 (anno in cui Eni guidava la classifica Mediobanca da quota 75,8), «producono» 13 miliardi di margine operativo e 7,3 di utili, poggiano su un patrimonio netto complessivo di 47 miliardi, danno lavoro a 260 mila persone. Hanno consentito, o comunque hanno dato un enorme contributo alla ripartenza dell’Italia dopo la peggiore recessione mai vissuta dal mondo dal 1929. Vogliamo dargliela (e darcela), la chance di una «seconda volta»?
*L’Economia, 2 marzo 2020